IN CUCINA SI MANGIAVA
... IN CUCINA ..... SI MANGIAVA ...
(Mario Vassallo)
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C’era un modo di dire che mi veniva ripetuto molto spesso: “se mangi questo, diventi grande”.

In effetti non sono cresciuto più di tanto, ma sicuramente la mia famiglia ha fatto di tutto e molto di più affinchè non mi mancasse nulla …. E ci sono riusciti!!
Oltre a trasmettermi ed insegnarmi dei valori, mia mamma, mio papà e mia nonna paterna hanno fatto in modo che crescessi in modo felice e consapevole.

Avrei potuto scegliere qualsiasi altra foto, ma ho ritenuto di utilizzare questa, perchè è un po' il simbolo delle mie origini:
i miei primi passi su quella che è sempre stata la mia casa, l'Andora di quando sono nato, con mia nonna Rina che mi ha trasmesso l'amore per le tradizioni.
E parlando di golosità, quali erano le particolarità che tenevano la famiglia incatenata a tavola?
Ghiottonerie fatte di ingredienti semplici, sapori e profumi che restano vivi nei nostri ricordi, rituali tramandati con sacralità tra generazioni all’interno della famiglia, dei quali sono andati perduti il tempo, la voglia e la manualità per ripeterli e replicarli ancora.
La pasta fatta in casa non mancava mai, altro che pacchetti e scatole!
L’impasto veniva fatto una volta alla settimana, solitamente il sabato pomeriggio, utilizzando “a mèsa”, la spianatoia in legno.
Un bel mucchio di farina, parecchie uova, tanto da non dover aggiungere acqua all’impasto, sale …. e via col matterello a stendere una sfoglia sottile e resistente, che veniva tagliata finemente e rapidamente con una manualità agilissima.
Si poteva scegliere tra tagliolini e tagliatelle, realizzate tagliando la sfoglia con un coltello che aveva ciò che restava di mezzo manico di legno e la lama “früsta”, cioè consumata (e infatti non tagliava), ma l’incisione era così sicura e precisa che sembrava un bisturi.
La pasta ottenuta veniva dapprima adagiata sui ripiani disponibili intorno, basta poter fare spazio sulla spianatoia per poter lavorare il resto dell’impasto.
Finito di tagliare, si prendeva tutta la pasta fatta e si metteva a stendere sugli schienali delle sedie e solo successivamente trasportata su dei fili in dispensa, in modo che potesse asciugare e seccare lentamente, ma esposta al fresco e all’aria.
Veniva poi consumata nei vari pasti della settimana, cotta un po’ per volta, praticamente sempre col sugo, o al massimo con burro e salvia.
Ogni tanto c’era la variante dei ravioli, o degli agnolotti, soprattutto in occasione delle feste.
I ravioli godevano della preventiva preparazione del ripieno, che poteva essere di magro (cioè di verdura), o di carne.
Molto spesso se il ripieno era di carne si realizzavano direttamente gli agnolotti.
Il ripieno comprendeva carne trita, che però non era macinata subito; infatti, si usava della carne “nervosa” (cioè con nervetti e tegumenti, piuttosto resistente), cotta ad “uccelletto” (rosolata in un tegame con vino rosso, aromi come alloro e rosmarino, olio e cipolla, a volte anche carota e sedano), la quale veniva tritata solo dopo la cottura, unendo prezzemolo fresco (oppure no); al ripieno venivano poi aggiunti fegatini di coniglio e a volte di pollo (solo durone e cuore, ma non il fegato per non rendere il ripieno amaro) e, se c’erano a disposizione, si spolpavano le zampe di pollo e si aggiungeva il cervello e lingua di coniglio.
Il tutto tritato, con qualche foglia di bietola e/o spinaci e formaggio grattugiato, diventava il ripieno.
La sfoglia veniva tagliata con un bicchiere non molto grande, creando dei cerchi che, piegati a metà, e riempiti con il ripieno, erano chiusi schiacciando i bordi con le dita.
La cottura degli agnolotti era preferibilmente in brodo, ma anche col sugo.
Nel ripieno dei ravioli, invece finivano bietole, borraggini, spinacio, erbette, aromi, uova e formaggio.
La sfoglia veniva tagliata in strisce rettangolari; su metà della lunghezza si posizionava il ripieno a mucchietti, ad intervalli regolari, si copriva con l’altra metà della striscia di pasta, premendo con le dita attorno ai mucchietti di ripieno, in modo da attaccare i due strati di sfoglia.
Quindi, si tagliavano i ravioli usando o il coltello o la rotella.
Anche i ravioli seguivano le stesse cotture e condimenti degli agnolotti.
La differenza tra la pasta fatta in casa con o senza ripieno era che quella senza ripieno durava per tutta la settimana, mentre quella con il ripieno solo 2 – 3 giorni, perché altrimenti il ripieno sarebbe fermentato …. Ma non c’erano problemi, perché finiva sempre tutto prima.
La “cima” era fatta 2 – 3 volte all’anno ed una di queste era sempre verso dicembre, un po’ prima di Natale.
Si doveva acquistare il pezzo di carne dal macellaio, sindacando attentamente più di ogni altra cosa come venisse effettuato il taglio a tasca, perché era importante che fosse a metà dello spessore della carne, molto esteso lasciando poco bordo, ma al contempo uniforme perché altrimenti sarebbe scoppiata nella cottura, vanificando tutto il lavoro fatto.
Il ripieno era simile a quello dei ravioli, unendo però fegatini di coniglio e aggiungendo piselli e uova non mischiate al ripieno; qualcuno aggiungeva salsiccia al posto dei fegatini di coniglio ed altri non usavano derivati di carne, ma solo verdure e uova.
L’importante era utilizzare ciò che si aveva a disposizione ed in base ai propri gusti.
La tasca, riempita il più possibile con il ripieno, veniva cucita con un’opera di alta sartoria con dello spago, usando un ago simile a quello per materassi (con la punta ricurva), ma di dimensioni e diametro più piccolo, facendo attenzione che la cucitura risultasse molto regolare, stretta al punto giusto da non fare uscire il ripieno durante la cottura, ma anche che la cottura stessa non determinasse lo strappo della carne sotto la tensione apportata della cucitura.
A fine cottura, raffreddata, veniva tagliata non troppo spessa ed a volte accompagnata da un condimento di una salsa verde fatta con uova, capperi e aromi.
Il sugo, “u tuccu”, era il condimento comune e per eccellenza della pasta, ma anche per pollo e coniglio, stufato, intermezzo mattutino e pomeridiano.
La casseruola veniva “caricata” con i pomodori a pezzi, non raramente senza togliere la buccia superficiale, aggiunta cipolla, un paio di spicchi d’aglio, acqua e via alla cottura a fuoco medio lento per ore, eventualmente aggiungendo acqua, mescolando di tanto in tanto, assaggiando con “u cassìn” (il mestolo di legno).
Dopo ore di cottura la consistenza era quasi da tagliare a fette, tanto che il mestolo era in grado di stare ritto, infisso nel sugo.
Spesso dentro veniva annegato un pezzo di “carne da bùie” (carne da bollire, pezzi solitamente da poco e molto filacciosi), il quale veniva cotto, ricotto, ricotto ancora e spuntava come sorpresa alla fine, quando il sugo stava finendo e la consistenza della carne era ormai ridotta a qualcosa di legnoso.
Un sugo che doveva durare per giorni (si faceva circa due volte alla settimana e si mangiava tutti i giorni), che era a disposizione in ogni momento per sopire il languorino che si presentasse a qualsiasi ora del giorno.
Eppure, era sufficiente avere una “dentaètta de pàn” (tozzetto di pane, letteralmente “morsicata di pane”), anche vecchio, ed il gioco era fatto: uno spuntino veloce, sempre pronto e in grado di soddisfare più o meno ogni esigenza ed ogni palato.
Nei casi eccezionali, il pezzo di carne da bollire veniva sostituito da salsiccia e allora la situazione cambiava drasticamente, perché il languorino diventava il pasto principale ed il sugo durava solo al fino al giorno dopo!
All’epoca, considerando l’olio un bene prezioso, i condimenti erano orientati su un maggiore utilizzo di burro e di lardo e proprio quest’ultimo rappresentava una ghiotta variante anche per il sugo.
Infatti, ogni tanto (3 – 4 volte all’anno) si comprava un pezzo di lardo, che comprendeva la pancetta e la cotica.
La parte più grassa, quella che era identificata come lardo vero e proprio andava via gradualmente, tenendo salato con sale grosso il pezzo che restava.
Con il grasso o separatamente veniva consumata una parte della pancetta, tralasciando lo strato grasso immediatamente attaccato alla cotica.
Quando rimaneva la cotica e quel poco di rimasuglio attaccato superiormente, il tutto diventava ingrediente da sugo, che per l’occasione cuoceva ancora di più, in modo da ammorbidire il più possibile la cotica stessa …… ed era tutta un’altra cosa …. mai più assaggiata.
La trippa di pollo era un’operazione in cui serviva una pazienza da santo e veniva fatta solo se il pollo era ruspante sul serio (esemplari da 3 – 4 kg).
Personalmente l’ho sentita raccontare da alcune persone, ma l’ho vista fare e mangiata solo cucinata da mia nonna.
Poiché venivano puliti in casa, direttamente da chi cucinava, in tali casi si sfogava tutta la conoscenza di generazioni, a partire dalla spiumatura, la strinatura, il taglio nelle giunzioni delle articolazioni e non spaccando a caso l’ossatura tanto per fare dei pezzi, venivano pulite attentamente le zampe (che erano cotte prima bollite e poi rosolate), recuperate tutte le frattaglie interne ed infine l’intestino, da cui si sarebbe ricavata la trippa.
Si prendeva una piccola manciata di chicchi di riso (una pizzicata da 10-20 chicchi), si facevano sbollentare sufficientemente per perforarli con un ago da cucire con la cruna piccola; da 1 a tre chicchi venivano trapassati dall’ago e da un filo del 16, opportunamente annodato in modo che i chicchi non si staccassero ma anche che rimanessero distanziati tra loro di poco meno di 1 cm.
Dentro ad ogni tratto dell’intestino si faceva passare l’ago con il filo, facendo pressione sul budello al passaggio dei chicchi di riso, in modo che questi ultimi portassero via tutto lo sporco all’interno.
Tale operazione si effettuava per un paio di volte e se necessario anche di più ed ogni passata era intervallata da un lavaggio approfondito ed accurato con aceto.
Quando si riteneva che tutto fosse a posto, si procedeva ancora ad ulteriori lavaggi, sempre con aceto ed abbondante acqua corrente e poi si provvedeva a tagliare per lungo e a pezzi il budello, strofinando da entrambi i lati con una lama di coltello non seghettata.
Ultimo risciacquo e via alla cottura, con abbondanti sapori, ma bilanciati, una prima cottura lunga in vino bianco ed infine cottura con vino rosso con alloro, tipo, rosmarino e cipolla.
Essendo presenti alla preparazione e pulizia, mai verrebbe idea di poter assaggiare qualcosa del genere, ma assaggiato una volta cotto, si cambia assolutamente atteggiamento, esaltando pazienza e bravura della cuoca!
La “maschetta” (guancia) e la coda sono pezzi considerati spesso di scarto, ed un tempo come oggi, erano tagli di basso costo (talvolta addirittura regalati dai macellai) e pertanto spesso acquistati per cambiare un po’ l’abitudinarietà alimentare, senza spendere troppo.
Solitamente bolliti a lungo e poi eventualmente girati nel sugo o rosolati, ma una volta giunti sul piatto costituivano una sorta di carne in scatola, più gustosa e abbondante, sicuramente più genuina e con tanto di gelatina di condimento.
La gallina ripiena era un regalo in tavola prima di Natale e di Pasqua.
Veniva sempre scelta una gallina da uova, ma ormai non più giovane, in carne, possibilmente grassa e grossa.
Il ripieno era simile a quello utilizzato per la “cima”, con l’aggiunta eventuale di salsiccia sgratata nell’impasto del ripieno.
Venivano tolte solo testa e zampe, aperta in corrispondenza dell’addome, ripulita attentamente, ma lasciando al suo interno l’eventuale pigna di uova se presente e ricucita con cura, similmente a quanto previsto per la “cima”.
La differenza era determinata da quanto fosse grassa, perché un esemplare magro sarebbe risultato poco morbido e con un gusto più insipido, indipendentemente dall’accuratezza del condimento.
La torta verde costituiva un cibo “pratico” per utilizzare velocemente ciò che era a disposizione, creando qualcosa di veloce, gustoso e nutriente.
La sfoglia, rigorosamente tirata a mano con “u cannèllu” (il matterello), era farcita con il ripieno, principalmente qusi esclusivamente su base di verdura (talvolta anche senza uova), la cui composizione dipendeva molto dalle disponibilità stagionali: veniva consumata fredda in periodo caldo e appena cotta in periodo freddo.
Nella cucina di tutti i giorni, si impastava spesso e un po’ in tutti i modi e tra gli impasti non sfuggivano i dolci, di cui la torta di mele era piuttosto comune in alcuni periodi dell’anno in cui il frutto non mancava.
Veniva fatta in diverse varianti, anche mista a pere e aveva in ogni caso il difetto che finiva velocemente!
I “frixiöi” (le frittelle) sono un’arte culinaria contadina che si tramanda fortunatamente, almeno in parte, nelle varie versioni delle sagre paesane, che attingono dalle tradizioni locali.
Frittelle, pan fritto, patate fritte, hanno in comune un elemento la padella.
Può sembrare una sciocca ovvietà, ma non è così, perché in un certo senso, cosa assurda per le nostre concezioni alimentari e “igieniche” odierne, avevano una continuità di cottura!!
Questo perché la padella, generalmente in ferro non veniva mai lavata a termine frittura, ma solo “asciugata” dall’olio in eccesso, il quale veniva inizialmente colato in un recipiente dove erano versati i residui di più fritture e dove i sedimenti scendevano sul fondo del contenitore stesso (spesso senza essere tolti subito), il quale era e restava aperto superiormente, a meno che non fosse coperto con un coperchio più grande o un piatto girato al contrario, in modo che potesse respirare e non ci andassero gli insetti.
I sedimenti venivano utilizzati per ingrassare utensili o condire avanzi per gli animali domestici, mentre l’olio decantato serviva per lumi e lanterne, ma anche come “pre-lubrificante” per pentole e padelle (!).
Infatti, la padella, dopo essere stata scolata dell’olio residuo, veniva “asciugata” con la carta assorbente da macellaio o con uno straccio, esclusivo per tale uso, di cui è meglio non sapere di più.
Pertanto, sulla padella restava un appena percettibile strato di unto, che sedimentava nel tempo creando uno strato nero, una specie di incrostazione untuosa (e catramosa) che impediva al ferro con cui era fatta di arrugginire (o almeno così non si vedeva la ruggine, continuando a credere che non ci fosse!).
Alla frittura successiva, si tastava con le dita per constatare se di percepisse unto; in caso affermativo si procedeva alla nuova frittura, in caso contrario eventualmente si ungeva leggermente la superficie, intingendo o lo straccio o un pezzo di carta dentro al recipiente dell’olio usato in precedenza, al fine di strofinare il fondo e i bordi della padella (per lo straccio, la maggior parte delle volte non era necessario intingerlo ….. era già sufficiente da solo).
Tornando alle frittelle, esse venivano realizzate, fatta salva la pastella che era praticamente sempre la stessa composizione di base, al limite variabile in densità, con gli ingredienti più diversi: mele, cavolfiori, broccoli, cipolla, stoccafisso e baccalà, frattaglie di pollo e coniglio, funghi, pastella e basta, ecc..
Se ci fermiamo a riflettere su quali condizioni alimentari rappresentassero la produzione delle fritture con i modi del tempo, possiamo tranquillamente manifestare una parte di meraviglia ad essere sopravvissuti …..
La torta di zucca era una torta dolce (a volte estremamente dolce), tipicamente autunnale, che veniva fatta tra novembre e dicembre.
Molto spesso era un ripiego goloso per evitare di sprecare le zucche raccolte che non si erano sufficientemente mantenute sane come scorta per l’inverno.
Quindi, si sfruttavano eliminando le “tacche” (parti) ammalorate, “scüŗandu” (ripulendo scavando) tutto intorno alla parte andata a male e tutto il resto veniva recuperato e lavorato per essere trasformato nell’impasto che avrebbe dato origine al ripieno della torta.
La zucca, tolta la buccia e ricavata la polpa a pezzi di dimensione variabile, veniva cotta in forma di bollitura in un “tiàn” (una pentola di grosso diametro e parecchio fonda).
Una volta cotta e raffreddata si strizzava a manciate e poi si mescolava con pinoli, olio, uvetta passa e zucchero (spesso davvero troppo!) e tale ripieno ottenuto veniva adagiato su una sfoglia sottile, tirata a mano con “u cannèllu” (il matterello), fatta con olio nell’impasto e rimboccata a coprire pressochè completamente l’intera estensione all’interno della “teglia”, enormemente unta e altro olio era aggiunto sopra al risvolto in copertura di pasta.
La cottura in forno diventava praticamente una “frittura”.
Tra preparazione e cottura si impiegavano un paio di giorni, venendo realizzata in “quantità industriali” e pertanto si ricorreva a diverse “fornate” successive.
Ne derivava una torta molto dolce, parecchio unta e sicuramente in grado di saziare.
Capitava che venisse fatta una sola volta all’anno, sia per motivi di tempo per la preparazione, che per la disponibilità degli ingredienti, ma anche perché per finirla tutta e non sprecarla occorreva un certo impegno …. e una seconda volta sarebbe stato davvero troppo.
I “figassìn” con l’aglio erano una specie di frittella, molto povera negli ingredienti …. e pericolosa per la convivenza in spazi chiusi!!
Si trattava di un impasto di farina e patate ridotte in poltiglia, con cui venivano fatte delle sfoglie, o grandi come il fondo della padella, o tagliate a forme casuali, come per i “crùstuli” (le “bugie”), che venivano fritte come normali frittelle, con la differenza che sopra venivano sparse manciate di aglio tritato, in quale concorreva ad insaporire durante la frittura, fissandosi anche alla pasta come condimento.
L’olio di cottura veniva talvolta conservato per inumidire e tenere morbidi i “figassìn” che non erano consumati subito, possibilmente caldi.
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