CURIOSITA' STORICHE DEI DINTORNI - Andora nel tempo

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CURIOSITA' STORICHE DEI DINTORNI

STORIA E DOCUMENTI > CURIOSITA' STORICHE
LA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN MATTEO A LAIGUEGLIA

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LA CHIESA PARROCCHIALE DI SAN MATTEO A LAIGUEGLIA
(Mario Vassallo - Felice Schivo)


Foto per gentile concessione Felice Schivo

Si dice che sul sito della attuale chiesa ne sorgesse una molto antica dal IV secolo, dedicata a San Matteo.
Nel 1531 San Matteo, grazie a papa Clemente VII, divenne parrocchia, staccandosi dalla Chiesa matrice di San Giovanni Battista in Andora.


Nella la prima metà del Seicento l'edificio si presentava con un’aula a tre navate, sorrette da colonne in pietra nera, orientato parallelamente al borgo sviluppatosi lungo il litorale.
Il coro era a levante e in facciata figurava un portale in pietra nera, con l'immagine di San Matteo, con incisa la data 1616 (presumibilmente riferita ad uno degli interventi di modifica e restauro subìti nel tempo).


Foto per gentile concessione Felice Schivo

Una iscrizione in controfacciata, datata 1565, riportata dal canonico Ambrogio Paneri nel “Giardinello”, pone qualche dubbio sulla effettiva datazione.
Di questa costruzione originaria rimangono solo alcuni elementi di arredo marmoreo.



Nel 1585, il visitatore apostolico Mons. Nicolo Mascardi, ordinò che il campanile fosse costruito in posizione diversa da quella che occupava, ma non si conosce se tale indicazione sia stata attuata e la veduta secentesca di Laigueglia che compare in calce alla tela inserita nella volta dell'oratorio, presenta a lato della parrocchiale, un campanile a cuspide, come da stile tardo-medioevale.
Alla fine del XVI secolo la chiesa comprendeva l’altare maggiore ed altri tre dedicati a: Compagnia del Rosario (esistente dal 1576), Compagnia del Carmine (esistente dal 1607), Compagnia del Sacramento (esistente dal 1609).
Successivamente, grazie anche alle buone condizioni economiche locali derivanti dai proventi della pesca del corallo, si aggiunsero quelli dedicati a: Crocifisso (1630), Sant’Ireneo martire (1637 - quest’ultimo a seguito dell'arrivo a Roma delle reliquie del santo, trasferite da Gio Francesco Maglione che le donò alla chiesa) e Sant’ Erasmo (patrono della gente di mare).
Dal 1715 al 1723 si procede ad una completa ricostruzione dell’edificio parrocchiale in forme barocche: sul sedime di quello antico, sorse un’aula che si allargava al centro con uno spazio ottagonale coperto da volta a cupola, unitamente ad una serie di cappelle aperte nei muri perimetrali.
I lavori iniziarono nel 1715 e terminarono nel 1723.



L’architetto, sconosciuto, si ritiene possa essere Antonio Maria Ricca, originario di Lavina (entroterra di Albenga), anche in funzione del fatto che furono due suoi collaboratori, il savonese Girolamo Veneziano detto “il Fontanetta” e Giacomo Filippo Marvaldi da Candeasco, ad effettuare la perizia del nuovo edificio.
Nella nuova chiesa, con accesso da est, furono trasferiti gli altari marmorei di San Giacinto e delle Anime del Purgatorio, collocati nelle cappelle del corpo ottagonale.
Dal 1754 al 1781 furono realizzati un nuovo presbiterio e un ampio atrio, orientati perpendicolarmente alla chiesa preesistente.
Il progetto fu affidato a Gio Domenico Pitto, detto “Baguti”, residente a Genova e suo nipote Giacomo sovrintese al proseguimento dei lavori.



La facciata fiancheggiata dalle due torri campanarie rivolte verso il mare era l’ultima costruzione del paese che i marinai laiguegliesi vedevano quando prendevano il largo e la prima quando ritornavano a casa: un prospetto, a triplo ordine, con due cornicioni orizzontali aggettanti, ornato dagli stucchi neoclassici.

    
Foto per gentile concessione Felice Schivo

La planimetria di Laigueglia del cartografo Matteo Vinzoni (Il Dominio della Serenissima Repubblica di Genova in terraferma), datata 1773, documenta che il cantiere aveva preso avvio dal presbiterio.



Per la realizzazione di tali opere furono effettuati sbancamenti della collina retrostante si intervenne su atrio, prospetto tra due campanili con coronamento a bulbo disposti a 45 gradi.
Atrio e presbiterio sono coperti da una volta a cupola, con stucchi di fine ‘700.
L’altare marmoreo delle Anime del Purgatorio (1784 – 1791) è stato realizzato su progetto dell’architetto Giacomo Pellegrini.
Nel 1804 la Compagnia di Laigueglia comprò quattro altari di marmo secenteschi (oltre a quattro tele), provenienti dalla chiusura al culto (1798). per decreto della Repubblica Democratica Ligure. della chiesa di San Domenico di Genova.
La chiesa venne consacrata nel 1807.


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OPERE E ARREDI



  • facciata decorata con stucchi di Andrea Adami (1846);
  • intonacatura dei campanili (1848 – 1849);
  • manutenzione e restauro facciata, campanili e consolidamento statico della parte posteriore della chiesa per uno smottamento del terreno (a cura della Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici di Genova, 1988 – 1993);

   
Foto per gentile concessione Felice Schivo

  • restauro dei dipinti conservati all’interno della chiesa e nei locali adiacenti;
  • statue nelle nicchie ai lati del portale “La Temperanza” (a sinistra), “La Fortezza” (a destra), e sul fastigio (da sinistra verso destra), “La Giustizia”, “La Fede”, “La Speranza” e “La Sapienza” e sulla sommità l’immagine di San Matteo (Andrea Adami - 1846);
  • stemma in marmi policromi della Comunità di Laigueglia (sopra l’architrave del portale - seconda metà XVIII sec.);
  • aula decorata con motivi rococò, su lesene e capitelli, di forma composita, con fogliami di acanto e teste di Cherubini;
  • statue in stucco dei Padri della Chiesa (nicchie angolari – 1780);
  • acquasantiera in marmo bianco scolpito (1561);
  • busto commemorativo di Stefano Musso (Giovanni Battista Origone – 1847);
  • fonte battesimale in marmo scolpito con medaglione scolpito ad altorilievo con il Battesimo di Cristo (XVI - XVII sec.);
  • busti ottocenteschi di Giacomo Chiappa e Domenico Preve;
  • medaglione mistilineo, affrescato con la Gloria di San Matteo (Tommaso Carrega da Porto Maurizio - XVIII sec.);
  • cappella di San Giuseppe, con altare in marmi policromi (1736) e tela raffigurante la Morte di San Giuseppe (XVIII sec.);
  • cappella di Sant’Antonio da Padova, con altare marmoreo secentesco proveniente da San Domenico di Genova e tela col Crocifisso dei Santi Girolamo e Antonio da Padova (XVII sec.);
  • altare delle Anime del Purgatorio, di stile neoclassico in marmi policromi, realizzato a Genova (scultore Andrea Casaregi, 1784 – 1791 – su disegno architetto Giacomo Pellegrini);
  • -pala raffigurante Sant’Anna e la Vergine che intercedono per le Anime Purganti (Giuseppe Paganelli – 1794);
  • ex voto a forma di veliero;



  • cappella di San Giovanni Battista, con altare marmoreo secentesco proveniente da San Domenico di Genova e tela raffigurante il Battesimo di Cristo;
  • statua marmorea settecentesca di Santo Vescovo;
  • cappella della Madonna, con altare in marmi policromi, con scolpiti sulla cimasa l’immagine del Padre Eterno e angeli, e le Anime del Purgatorio sul paliotto (XVII secolo);
  • altare maggiore nel presbiterio, marmoreo (bottega di Domenico Bocciardo – 1793), con crocifisso ligneo policromo (XVIII sec.);
  • organo (ditta Vegezzi Bossi di Centallo – 1932);
  • ciborio in marmo (proveniente dalla cappella di San Sebastiano);
  • stucco bianco in rilievo, raffigurante la Pentecoste (XVIII sec.);
  • coro ligneo (XVIII – XIX sec.);
  • pulpito in marmi policromi (XVIII secolo);
  • cappella di Sant’Erasmo, con altare in marmi policromi (XVIII sec.), con sulla cimasa immagini scolpite della Fede, Speranza e Carità;
  • tela con Sant’Erasmo (XVII sec.);
  • cappella dello Spirito Santo, con altare secentesco, proveniente da San Domenico di Genova;
  • tela con la Pentecoste (Castellino Castello – 1623);



  • cappella del Rosario (era il presbiterio della chiesa nel 1723), con l’altare maggiore originario (XVIII sec.) e l’ancona a timpano spezzato, addossata al muro (XVII sec.);
  • statua della Madonna del Rosario (in marmo, XVII – XVIII sec.);
  • serie dei Misteri del Rosario (XVIII sec.);
  • Samaritana al pozzo (Benedetto Musso, [Laigueglia, 1835 – 1883] - 1864);
  • Cristo e l’adultera (Giuseppe Musso, 1809 – 1866, padre di Benedetto);
  • cappella dell’Assunta, con altare secentesco proveniente dalla cappella Centurione in San Domenico di Genova; pala con l’Assunta e il Santo Raimondo di Peñafort (Bernardo Strozzi detto “il Cappuccino” - Venezia, 1639 – 1642);
  • cappella di San Giacinto, con altare in marmi policromi (XVII sec.) e tela con San Giacinto davanti alla Vergine (seicentesca e di modesta qualità);
  • in sacrestia, lavabo marmoreo (in sacrestia, XVII sec.), un Crocifisso ligneo quattrocentesco e una Natività (XVIII sec.);
  • statua in argento fuso raffigurante San Matteo e l’angelo (1708 – 1713), dono di Gio Domenico Musso e ammirabile il 21 settembre in occasione della festa patronale.





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ORATORIO DI SANTA MARIA MADDALENA

Sul fianco destro della chiesa parrocchiale, allineato sull’asse degli attuali bracci dell’edificio si trova l’oratorio di Santa Maria Maddalena, dove opera ancora l’omonima confraternita.
L’edificio fu costruito tra il 1616 e il 1634, con dimensioni considerevoli rispetto alla parrocchiale originaria, come il Sacro e vago Giardinello riporta “più proportionato à chiesa che ad oratorio”.
Si tratta di un’aula rettangolare coperta da volta a botte lunettata, con finestre secentesche in sommità dei muri perimetrali, a cui ne vennero aggiunte altre mistilinee, di forma allungata (XVIII sec.).
Vi si accede dal fianco sud ed il perimetro è caratterizzato dagli stalli lignei, utilizzati dai confratelli.
Il settore più antico è costituito dalla panca addossata alla controfacciata, dove sedevano i priori, con intaglio del secondo Settecento.
L’oratorio conserva gli elementi del corredo processionale, i lampioni ottocenteschi e un paio di crocifissi, uno dei quali, recentemente restaurato, sembra databile al XVII secolo.
Sulla volta la tela con la Gloria di Santa Maria Maddalena risulta interessante per una veduta secentesca di Laigueglia.
Il legame tra Confraternita e l’attività della pesca del corallo è testimoniato da due tele, che raffigurano rispettivamente La partenza e L’arrivo della flottiglia delle barche coralline.
Nel presbiterio sorge un altare marmoreo a colonne tortili (Dionisio Corte – 1671), con pala raffigurante Santa Maria Maddalena penitente (Domenico Piola – 1676).
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LA MADONNA DELLE PENNE
(Mario Vassallo)



1930 - Foto per gentile concessione Collezione Privata Marino Vezzaro - Andora


Questo Santuario mariano è posto sulla sommità di Capo Mele, all’interno del territorio del Comune di Laigueglia.
Gli emigranti catalani, pescatori di corallo che si trasferirono nelle locali zone costiere presumibilmente nella seconda metà del ‘600 portarono una statua della Madonna su cui era scritto “Mado de pene”, trafugata negli anni '70 del secolo scorso.
Nel 1773 nella cartografia della Repubblica di Genova redatta da Matteo Vinzoni compare come Santa Maria della Penna e nel corso del tempo il nome sarà adattato nel dialetto locale in Madonna delle Penne.
Nel Sacro e Vago Giardinello del ‘600 essa non compare relativamente alla Parrocchia di Laigueglia, sebbene esista riferimento in altro contesto legato alla presenza di una cappella presente su Capo Mele in devozione alla Madonna della Neve.
In questo periodo vengono ampliati la parrocchiale di San Matteo ed altri edifici di culto nel territorio laiguegliese e, secondo fonti storiche, i catalani erigerebbero chiesetta sulla preesistente cappella della Madonna della Neve, mantenendosi nel tempo la ricorrenza al 5 agosto, festività della Madonna della Neve.
La chiesa attualmente si presenta come un'unica aula rettangolare a cui in un secondo tempo fu aggiunta una loggia di ricovero per i viandanti, che presentava tre ampie aperture ad arco, le quali per motivi statici sono state molto ridimensionate sino a due piccole porticine di cui una verso monte chiusa e sono state chiuse le due nicchie ed una finestra sulla facciata principale (mantenendone l’indicazione disegnata), nonché quattro piccole finestre in alto sulla facciata a monte.
Nel 2011, limitrofo alla costruzione, è stato posizionato un busto di San Giovanni Bosco.
La facciata laterale verso mare è caratterizzata dall’affresco della Madonna dai Grandi Occhi, l’ultima immagine che i marinai vedevano prendendo il largo.
 Ai piedi della Madonna è rappresentato il villaggio di Laigueglia del 1600 dove si notano il bastione del Cavallo, la chiesa di San Matteo (i cui due campanili, sarebbero stati aggiunti circa 150 anni dopo l'affresco originale), il bastione centrale ed il bastione del “Giunchetto” ai piedi di Capo Mele.


1953 - Foto per gentile concessione Collezione Privata Marino Vezzaro - Andora

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IL RELITTO DEL RAVENNA
(Antonello Degola)



Era un mercantile costruito nei cantieri navali di Sestri Ponente nel 1901, lungo 110 metri, largo 13,28, alto 8,33, armato con due cannoni 76/40 Amstrong; aveva una stazza lorda di 4 250 tonnellate, netta di 2690 tonnellate, macchina motore a triplice espansione di 4000 cavalli, velocità di crociera di 13 nodi.
Il Ravenna veniva utilizzato come piroscafo postale lungo la rotta Genova-Buenos Aires.
Il 4 aprile del 1917 alle 9,30 del mattino, di ritorno dall’ennesimo viaggio in Sudamerica, mentre era in navigazione verso nord, vicino a Capo Mele, di fronte alla chiesetta della Madonna delle Penne, fu affondato da un siluro lanciato dal sottomarino tedesco U-52.
Colpito a poppa vicino alle stive, il piroscafo, invaso dall’acqua entrata dallo squarcio, si alzò verso il cielo e, raggiunta la posizione verticale, si inabissò velocemente.
Nonostante l’affondamento fosse rapidissimo, vi furono poche vittime, sia perché la costa era vicina, sia perché i pescatori di Andora, Laigueglia e Alassio portarono aiuto ai naufraghi: le vittime furono solo sei, cinque passeggeri e un marinaio.
Il relitto del Ravenna, visibile in condizioni meteo marine ottimali, si può vedere a occhio nudo dalle imbarcazioni; è alla profondità di 80 metri circa, leggermente inclinato sul fianco sinistro.
La parte centrale della nave, nonostante i quasi cento anni in balia delle correnti, è ancora in buono stato.
Immergendosi, si nota lo squarcio provocato dal siluro e, verso prua, i danni causati dalle mine elettriche usate dai palombari della So.Ri.Ma. della nave Rostro, che nel 1930 recuperarono i 60 000 quintali di lana greggia e i 31 000 quintali di sego, carbone e macchinari agricoli che costituivano il carico del Ravenna.
Qualche vecchio esperto pescatore di Andora e Laigueglia pare che riuscisse a calare le nasse per i gronghi e le aragoste addirittura dentro i boccaporti del relitto.
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LO SCOGLIO DELLE VEDOVE
(Mario Vassallo)




Lo "Scoglio delle vedove" era un tratto di mare tra Capo Mele e l'Isola Gallinara, con fondali coperti da banchi di corallo, dove perirono molti pescatori dediti alla pesca corallina.
Nel 1720 avvenne il naufragio di 30 barche coralline di Laigueglia ed Alassio, con pochi superstiti e dove trovarono la morte 200 marinai.
Le conseguenze di ripetute tempeste nello stesso periodo crearono la distruzione del fondale e la scomparsa dei banchi di corallo.
Tra i sopravvissuti del naufragio vi fu il patto di svelare mai il luogo della disgrazia, poichè si trattava del punto più ricco di corallo.
La leggenda tramanda che uno dei marinai sopravvissuti, dopo che fu fatto ubriacare, svelò la posizione del luogo e, forse anche per tale motivo, morì tra atroci sofferenze per le conseguenze di una piaga al ginocchio nell'indifferenza dei suoi concittadini.
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L'ECCIDIO DI GINESTRO
(fonte provvisoria Wikipedia)

La storia è scritta dai vincitori.
E i vincitori sono spesso ricordati, presentati ed eletti ad eroi, le cui gesta sono assunte al bene contro il male.
Ma ovunque si parla di storia, esiste una controstoria, altrettanto vera, vissuta, che troppo spesso volutamente nasconde soprusi, angherie, umiliazioni imposte, infamia, soppressione della dignità nei gesti compiuti a danno dei luoghi e soprattutto su individui del genere umano.
Fatti in nome della guerra, in machiavellica giustificazione “il fine giustifica i mezzi”, perpetrati nell’eroico incedere della forza di un’arma imbracciata contro indifesi, oltraggiati ed umiliati innocenti.
Fatti attentamente taciuti, ma che emergono con decisione e pennellate indelebili dai racconti di chi li ha vissuti, subìti e testimoniati, con dovizia e riscontro documentale, lontano dalle pubblicazioni celebrative.
La guerra è anche questo; la storia è anche questo: la ricerca della dignità di voler ricordare e conoscere.
Alcuni fatti, contrariamente ad eroismi decantati e sbandierati, racchiudono e ricordano terribili e sconvolgenti orrori, commessi nella brutalità indignante della forza “eroica” infusa dall’imbracciare un’arma.
In questi anni di studi ed approfondimenti storici ho sempre attentamente evitato la storia della Resistenza, perché ho sempre ritenuto di non volerla affrontare non conoscendola a sufficienza, o forse meglio conoscendone anche risvolti da controstoria, spesso taciuti.
Il bene e il male, che inevitabilmente si mischiano ed a volte si invertono, oppure semplicemente mantengono la loro posizione rivelando punti di vista diversi in base alla prospettiva con cui sono osservati.
Restano i fatti, o almeno alcuni, indissolubili, tragici; un orrore senza tempo, che si può leggere istantaneamente negli occhi di chi ne è stato toccato, chi lo ha vissuto e subìto direttamente.
Nel nostro territorio locale sono tanti i fatti raccontabili, ma uno su tutti resta da esempio ripotato indissolubilmente nel tempo: “l’eccidio di Ginestro”.
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(fonte provvisoria - Wikipedia)


I FATTI
Nella domenica del 15 aprile 1945 avvenne un fatto che è tra i più significativi della storia recente della comunità di Testico. Durante il periodo dell'invasione tedesca, la collettività si mostrò molto mite, senza che nessuno mostrasse idee politiche e senza che ci fossero partigiani conosciuti appartenenti alla comunità: nel territorio testicese non risultano soldati tedeschi catturati né uccisi.
Alla mattina presto una pattuglia di tedeschi - guidata dal Maresciallo, soprannominato "Maryling" - partì dalla vicina Cesio; erano le 6 di mattina quando altre due colonne si misero in movimento da Vellego e da Cesio.
Alle 7 la frazione di Ginestro era circondata ed avvenne un rastrellamento casa per casa: la ventina di residenti vennero raccolti e trasportati al capoluogo di Testico; i civili arrestati, vennero immediatamente legati con corde da basto prese dai soldati nelle stalle.
Costantino Vairo, un giovane di 14 anni che stava pascolando gli animali, vide da distante la colonna, e si mise a correre verso il paese, ma non riuscì ad arrivare in tempo e nemmeno venne ascoltato dai pochi che incontrò: venne catturato.
Durante il tragitto i tedeschi uccisero Bruno Angelo che era sul ciglio della strada con una scarica di mitra, mentre i mezzi erano in movimento; questa morte - senza motivo - è giustificabile con la probabile paura che egli potesse avvertire gli altri o potesse fuggire.
Secondo un'altra testimonianza, che rimase latente tra la gente di Torria (frazione di Chiusanico), soprattutto tra le donne d'allora, mai ufficialmente rivelata né trascritta, si disse che la causa del feroce comportamento della pattuglia tedesca e della sua relativa rappresaglia contro la gente inerme, fu un colpo di moschetto sparato da un gruppetto di "pseudo-partigiani", ossia semplici renitenti alla leva senza occupazione, che vivevano alla macchia e d'espedienti, presenti in quel momento in località "Rocca d'u Crovu", piccolo dirupo boschivo sopra Testico.
Questa scellerata azione non fece altro che inferocire ulteriormente i militari tedeschi, già ampiamente arrabbiati e frustrati, poiché si sentivano prossimi alla resa.
Ovviamente dopo questo gesto avventato gli pseudo-partigiani (quelli veri, nobilissimi, fecero ben altro, rischiando la loro pelle in primis e salvando molte altre persone), scapparono e, non contenti, attraverso il passo di San Giacomo, si diressero a Torria, obbligando le donne, in male maniere ed armi in pugno, a rimpinzare i loro zaini e borracce di cibi e vino.
Tra le donne che ricevettero visita c'erano Giuditta Bertolotto in Garabello moglie di Pietro e loro primogenita di nove figli Eugenia, sposata con Sèttimo Pellegrino ed a sua volta madre di 6 bambini. I torriaschi, Pietro Garabello, Settimo Pellegrino ed Antonio Sciandrini erano stati appena catturati nell'osteria di Testico mentre barattavano con altri avventori il loro olio con della farina di frumento e trucidati dai militari tedeschi, insieme ad altre 27 persone, mentre quella banda di scappati di casa (non è mai stato rivelato da dove arrivassero. anche se più d'una persona lo sapeva bene), si rifocillava con roba altrui.
Eugenia Garabello ricordò che fu costretta a dar loro delle uova e una mezza pagnotta: le sole cose che aveva in casa immediatamente consumabili, visto che, vivendo già in misere condizioni, non disponeva certo di cibarie più appetibili (formaggi, salumi od altro).
Particolare non da poco, all'eccidio scamparono miracolosamente, tra gli altri, altri due torriaschi: Realdo Garabello, di 29 anni, ed Armando Pellegrino, di appena 14, ossia zio e nipote, rispettivamente figlio di Pietro (il primo) e di Settimo (il secondo), spinti a gettarsi in un roveto dai loro genitori, in un tratto dove il sentiero che conduceva a "Costa Binella", dove poi si consumò l'eccidio, non permetteva la completa visibilità dell'intera colonna dei prigionieri, né alle sentinelle tedesche in testa, né a quelle in coda ad essa.
Il fatto dello sparo provocatorio, che si sarebbe rivelato il vero detonatore della strage, fu confermato, giusto qualche anno fa, dalla sconcertante confessione, fatta sul suo giaciglio del trapasso, da uno di coloro che avevano partecipato a quella scellerata bravata - forse lo sparatore stesso (ovviamente anonimo) - a chi l'assisteva al capezzale.
Questa persona disse che da troppi anni si portava dietro quell'ignobile segreto, che gli aveva provocato, un rimorso irriducibile, seppur egli l'avesse già confidato, anni addietro, in confessione, a un sacerdote, per il fatto di non averlo potuto rivelare ai suoi cari, per paura di reazioni violente o minacciose di matrice politica, da parte di suoi ex compagni.
Tornando al tragico fatto saliente, mentre si stava celebrando la santa messa domenicale, la chiesa parrocchiale di Testico venne circondata, i due chierichetti riuscirono ad essere messi in salvo dal prete tra il tetto e la falsa volta in canniccio.
Gli abitanti, uniti a quelli già arrestati a Ginestro, vennero raggruppati su un muro esterno alla chiesa, sotto la sorveglianza di un militare armato di mitra. Gli altri erano in giro per il paese proseguendo il rastrellamento casa per casa.
Alcuni abitanti riuscirono a nascondersi, altri a fuggire ed avvertire i partigiani nascosti sui monti attorno alla località.
Alle 9:00 di mattina alcuni spari vennero fatti in direzione dei soldati tedeschi.
Il soldato della Wehrmacht che col suo mitra sorvegliava gli abitanti fuori dalla chiesa fu costretto a ripararsi all'interno del vicino oratorio di Sant'Antonio Eremita e l'occasione fu opportuna per il giovane Costantino Vairo che riuscì a scappare, assieme ad altri due, e a cui i militari provarono a sparare ma senza successo.
I partigiani provarono a liberare i prigionieri, ma i tedeschi usarono i civili come scudi umani.
Nell'osteria del paese arrestarono tre uomini più il titolare.
Un militare chiese da mangiare e da bere all'oste che, una volta serviti, ne approfittò per scappare dalla finestra aperta dileguandosi in una vigna: il militare concentrato sul panino non reagì. In questa occasione avvenne un fatto particolare, degno di nota: lo stesso soldato uscendo dall'osteria incontrò un uomo che si era nascosto nella cantina sottostante all'osteria.
All'uomo che non si mosse atterrito dalla paura, il soldato disse: "Via, via presto. Questa sera kaput!", frase che annunciò ciò che successe in seguito.
Alla popolazione riunita nella piazza della chiesa, vennero aggiunti gli abitanti della frazione di Poggio Bottaro. Si misero in marcia e passarono vicino alla frazione di Zerbini, dove vennero rastrellate altre persone. Tornarono davanti alla chiesa della frazione di Ginestro, dove tra i militari tedeschi scoppiò un alterco.
La colonna di militari e prigionieri procedette verso Cesio, fermandosi al poggio di "Costa Binella", dove i prigionieri vennero fatti sedere.
Tre giovani vengono liberati e fatti allontanare, mentre quattro donne e altre quattro ragazze furono mandate al carcere di Imperia per essere successivamente sottoposte ad interrogatorio.
Vennero legati i polsi formando delle coppie, schiena contro schiena, uomini con uomini, donne con donne.
Gli uomini messi sulla destra vennero fucilati da una distanza ravvicinata, mentre le donne vennero prima violentate, seviziate ed infine uccise con la baionetta, che venne brandita anche per finire i pochi uomini che, dopo Ia fucilazione, mostravano ancora un alito di vita.
I tedeschi tornarono per la strada di Cesio andandosene di fretta.
I civili nascosti lasciarono passare diverse ore prima di uscire, ed andare a cercare i propri compaesani.
Di fronte al tragico eccidio, con dei carri trainati da buoi, portarono i corpi esamini nell'oratorio; qui vennero distesi sulla paglia e coperti.
Furono istanti di particolare terrore e dolore, i cadaveri erano irriconoscibili, con i volti ed i corpi tumefatti. Alcuni riuscirono a conoscere i familiari solo dagli indumenti.
Venne scavata una fossa, dove trovarono momentaneo riposo alcuni corpi.
Vennero trucidate 29 persone in tutto: 25 di Testico e delle sue frazioni, 3 di Torria (frazione di Chiusanico) e 1 d'Alassio: Oliveri Pietro Giovanni Battista.
Bisogna altresì considerare che il paese contava all'epoca meno di 300 abitanti. Di questa tragedia nessun colpevole mai pagò, i tribunali non riuscirono a risalire a colui che diede e decise tale crimine.
 
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LE MOTIVAZIONI
Non si conosce una verità storica riguardo alle motivazioni che portarono i tedeschi a compiere l'eccidio.
Ma i testimoni parlano di una guida, una spia che era stata prima con i partigiani, e questa persona fa riferimento a due figuri.
Uno potrebbe essere austriaco, "Carlo", fuggito ai partigiani dopo essere stato con loro per qualche tempo come infermiere, per questo soprannominato "U Mêgu", che in dialetto ligure vuol dire medico, ma che è stata la spia e la guida dei militari tedeschi.
Secondo altri era un soldato tedesco, conosciuto a Testico col nome di "Franz", che era stato coi partigiani dopo aver finto la diserzione dai tedeschi.
Venne accolto tra le file dei partigiani sotto la guida di Massimo Gismondi, detto "U Mancén".
Il comportamento dei soldati tedeschi, fu presumibilmente una feroce e sproporzionata reazione allo sparo, diretto contro il plotone invasore in marcia, proveniente dai monti soprastanti, già narrato sopra, in un frangente in cui essi sentivano già la frustrazione per la disfatta imminente.
Secondo ricostruzioni, i partigiani trovarono rifugio nel paese, ed assieme ad alcuni abitanti avviarono la costruzione di un bunker che sarebbe servito come postazione radiotrasmittente e rifugio militare per gli alleati comandati dal capitano Bentley.
 
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IL RICORDO
Venne eretto un monumento a imperituro ricordo, ed ogni anno, in occasione della strage viene celebrata una messa.
Il Consiglio Comunale di Testico, l'11 giugno 2003, rivolse la richiesta a Carlo Azeglio Ciampi, allora Presidente della Repubblica Italiana, richiedendo il riconoscimento della medaglia d'argento al Merito Civile, per il gonfalone di Testico perché le generazioni che verranno non dimentichino.
Domenica 17 aprile 2005, in occasione del sessantesimo anniversario dell'eccidio, venne conferita la medaglia al valore al gonfalone comunale da parte del Prefetto, Nicoletta Frediano.
La motivazione è stata la seguente:
Piccolo paese dell’entroterra ligure di appena duecento abitanti fu oggetto di un efferato episodio di guerra: ventisette suoi concittadini furono presi in ostaggio e barbaramente trucidati per rappresaglia dalle truppe naziste. Due donne presenti nel gruppo vennero prima violentate e poi sventrate con i moschetti d’ordinanza. Nobile esempio di spirito di sacrificio e di elette virtù civiche. 15 aprile 1945 - Testico (Savona)”.
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LE VITTIME
Come testimoniato dal monumento a ricordo dell'eccidio, l'elenco delle vittime è il seguente:
 
Aicardi Elena, fu Eutimio, di anni 48
Ascheri Giuseppe, fu Giovanni, di anni 51
Bruno Angelo, fu Giovanni, di anni 72
Bruno Giovanni, di Valente, di anni 38
Danio Giovanni, di Costantino, di anni 44
Ferrari Giovanni, Fu Carlo, di anni 40
Ferrua Giacinto, di Giovanni, di anni 36
Gaibizio Bernardo, fu Venanzio, di anni 74
Merello Pietro, di Benedetto, di anni 42
Moreno Angelo, fu Vittorio, di anni 42
Pace Francesco, fu Pietro, di anni 57
Regesta G. Batta, Fu Nicola, di anni 58
Tirteo Anacleto, fu Lino, di anni 46
Vairo Americe, fu Luigi, di anni 60
Vairo Marcello, fu Marcello, di anni 36
Zerbone Filiberto, fu G.B., di anni 53
Zerbone Francesco, di Vincenzo, di anni 33
Zerbone Lindo, di Carmelo, di anni 35
Zerbone Mario, fu Luigi, di anni 45
Zerbone Teresa, di Giovanni, di anni 31
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