LIBRI DI ARRIGO MOLINARI
I LIBRI DI ARRIGO MOLINARI
(Per gentile concessione Linda e Carlo Molinari)
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Foto per gentile concessione Linda e Carlo Molinari
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ANDORA NEI SECOLI - STORIA
(Arrigo Molinari)
Pirella Editore - GENOVA
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"ANDORA NEI SECOLI"
STORIA
di Arrigo Molinari
Pirella Editore - Genova

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La storia di una piccola località, come questa di Andora, riesce singolarmente piacevole al lettore se lo scrittore sa passare dalla narrazione diacronica alla sintesi; ciò che ha saputo fare il Molinari in questa sua lucida e brevissima ricostruzione storica da lui impreziosita con puntuali riproduzioni e testimonianze d'epoca.
In tal modo il tessuto storico nelle sue variazioni (toponomastica e archeologia, etnografia ed etnologia, spazio e territorio, leggenda e realtà, iconografia ed arte) si arricchisce e si illumina di "particolarità" di pregnante valore. Di qui un quadro che ha per cornice il mare saturo di storia per le genti liguri, e l'incanto dei colli popolati di lembi boschivi e di ulivi.
L'Editore infine, molto consapevolmente, ha dato a questo libro del Molinari la debita finezza ed eleganza.
Raffaele Belvederi
Direttore dell'Istituto di Scienze Storiche
Ordinario di Storia Moderna nell'Università di Genova
Arrigo Molinari è nato ad Acri (Cosenza, 1932); laureato in Giurisprudenza all'Università di Napoli, è stato assistente di Diritto Ecclesiastico presso detto Ateneo per 10 anni. Dal 1955 in Liguria, funzionario di Polizia, ha percorso, conseguendo sempre brillanti risultati, tutti i gradi della carriera: commissario a Sanremo sino al 1969 e poi, a Genova, prima presso la Squadra Mobile in seguito come Vice Questore Vicario, incarico che ricopre tuttora.
Specializzato in Criminologia clinica, presso l'Istituto Antropologico Criminale dell'Università di Genova, ha conseguito altresì l'abilitazione all'insegnamento di Psicologia Sociale e Pubbliche Relazioni nonchè in Istituzione di Diritto ed Economia negli istituti medi superiori e l'abilitazione alla professione di procuratore legale e avvocato.
L'Autore e l'Editore ringraziano Michelangelo Dolcino per la preziosa collaborazione.
Finito di stampare il mese di Marzo 1982 per conto di Franco Pirella editore, presso la tipografia PG2.
Andora ha fatto luce sul suo passato e ora ha una sua storia anche se modesta.
Con un materiale molto ristretto, l'Autore ha saputo rievocare I 'antica storia di Andora che è stata fondata dai Focesi prima di Roma. La storia di Andora non è priva di interesse anche perchè dalle più modeste indagini locali molte volte sono stati tratti motivi per più ampie ricerche che spero altri vorranno affrontare ampliando il contenuto di queste pagine che sono memorie da custodire, divulgare e diffondere.
L'opera di ricerca e di indagine storica è stata scrupolosa e notevole è stato pure l'impegno.
Il materiale e le limitate fonti storiche, per la modesta pubblicazione dei secoli scorsi, hanno costretto l'autore a supplire a qualche dubbio col ragionamento deduttivo.
Non tocca a me criticare o elogiare l'opera; mi piace mettere in risalto come Andora si sia nel passato svincolata dalla servitù feudale dei Clavesana seguendo la sorte di Genova marinara e all'epoca napoleonica ha avuto il periodo più fulgido. D 'altra parte Andora nel bene e nel male è stata sempre presente nella storia Ciò per essere stata attraversata dalla strada romana e quindi, come si evince dalla tavola Peutingeriana, deve la sua importanza agli itinerari militari romani.
Come Presidente della Azienda Autonoma di Soggiorno e Turismo di Andora mi corre l'obbligo di presentare questo libro che fa onore alla cittadinanza e mi auguro che i visitatori sempre più numerosi ed affezionati alla nostra terra ospitale, trovino compiacimento e soddisfazione in ciò che di buono i nostri padri ci hanno lasciato in eredità come esempio di profondo attaccamento per il lavoro e la creatività.
Al saggio storico auguro la stessa fortuna che ha avuto 'Andora Immagini del Passato ' ' scevro di critiche negative tanto che in due anni ha raggiunto la seconda edizione con circa seimila copie che si trovano nelle case di chi ha gradito il volumetto.
Gr. Uff. Carlo Pallavicino
Presidente dell’Azienda Autonoma
Soggiorno e Turismo di Andora
LA PREISTORIA
La porzione di Liguria che interessa Andora è delimitata dai confini della provincia di Imperia e corre sul mare dai Balzi Rossi, presso Ventimiglia, ai Capi Cervo e Berta, spingendosi nella zona della Valle d' Arroscia e collegandosi con la zona d'Albenga.
Un quadro eccezionale della presenza umana dall'età paleolitica a quella dei metalli è dato dal materiale raccolto, producente abbondanti prove di frequentazione ininterrotta: reperti ossei, collane di conchiglie, utensili quali pestelli, raschiatoi, pugnali, coltelli, aghi, eccetera.
La prima nostra caverna ad essere esaminata scientificamente fu quella di Cassana: Paolo Savi la esplorò nel 1825, ritrovandovi numerose ossa di ursus speleus, l'orso delle caverne. Poi, via via, altre vennero studiate: la Caverna dei Colombi, nell'isola Palmaria - per limitarci ad alcune - quella delle Fate, nel Finalese, con quasi duemila frammenti d'ossa, l'altra del Pastore, presso Toirano, dove fra altro materiale si raccolse il teschio d'un felino paragonabile a un leopardo di grossa mole; e ancora, quella delle Arene Candide, a ponente di Finalmarina, e il complesso dei Balzi Rossi: una vera e propria rete di antri ricchi di manufatti, di resti animali, ma anche di vestigia umane.


Con la selce lavorata gli uomini preistorici affrontavano animali neppure immaginabili nella nostra regione. In basso a sinistra, un manufatto in terracotta per tatuaggi.
Emile Rivière scoprì il primo scheletro dei Balzi Rossi nel 1872. Coricato su di un fianco, il viso sulla mano, aveva sotto il capo un sostegno di pietre. Un esame minuzioso della terra consentì l'identificazione di peli non umani: se ne dedusse che quel corpo fosse stato adagiato su di una pelliccia. Altri particolari mostravano la cura di chi aveva composto il cadavere. Così attorno al capo spiccava una quantità di minute conchiglie e denti di cervo, formanti nell'insieme una sorta di corona, forse propria d'un personaggio di rilievo. Altre conchiglie, ancora, ornavano una caviglia, e accanto allo scheletro erano due lame di selce e una specie di pugnale, quest'ultimo ricavato da un osso di cervo. Il cranio, seppure con la fronte più stretta e complessivamente meno voluminoso, richiama quello dell'uomo di Cro-Magnon; doveva raggiungere il metro e ottantacinque d'altezza, ma altri scheletri dei Balzi Rossi permettono di stabilire stature perfino superiori ai due metri.
Probabilmente essi furono preceduti da individui più involuti, definiti di tipo negroide: almeno, così ritengono i più, a proposito di due scheletri rinvenuti nella stessa zona, nella caverna detta dei Bambini.

Monte Bego (Alpi Marittime).
Una stupenda testimonianza dei più antichi liguri: circa 40.000 graffiti dell'età della pietra riproducenti animali e attrezzi.
Scheletro umano scoperto nella Caverna delle Arene Candide di Finale L. (Museo Archeologico di Ge-Pegli).
Più remoto, comunque, l'abitatore della Liguria ritrovato nella grotta di Val Varatella detta della Strega, o della Basura, nel Loanese, dove oggi è Toirano; o meglio, vennero scoperte sue tracce, solidificate dai secoli. Un individuo tozzo, a stazione non perfettamente verticale, con fortissime arcate sopraciliari e la fronte molto bassa, corrispondente all'uomo di Neanderthal: una forma considerata intermedia tra l'uomo di CroMagnon e il più remoto ominide. Quest'ultimo - alla luce delle conoscenze attuali - avrebbe avuto insediamenti nel tratto compreso fra i Balzi Rossi e Nizza; tuttavia è verosimile ritenere che future scoperte muteranno questa affermazione.
GRECI E ROMANI

La cartina indica le popolazioni liguri e le principali strade dell'epoca romana- L 'Aurelia giungeva, oltrepassando Ventimiglia, sino alla francese Arles, la Postumia allacciava Genova a Piacenza. Quest'ultima località era inoltre collegata, da una terza arteria, a vado.
Si ritiene che Andora, vicino al Capo delle Mele e al torrente Meira - l'antico Merula - abbia tratto origine dai Focesi, che dalla Focide, ricca colonia sul lido asiatico, si dedicavano a traffici audacissimi quanto ad azioni di pirateria. Provetti navigatori, essi giunsero con le loro imbarcazioni in Corsica, impadronendosi delle migliori cave di sale - che Erodoto doveva definire più utile dell'oro - approdando per convenienza di trasporto alla foce del Merula. I Greci, appunto, presero per primi contatto col nostro Ponente, dando origine e sviluppo ai rapporti mercantili, facendo poi scalo in Provenza e nella penisola iberica. Scavi piuttosto recenti, al proposito, soprattutto nella zona attorno a Sanremo, hanno permesso di individuare il castello di monte Bignone, a m. 1300 quello di monte Colma (m. 649) e l'altro di monte Caggio (m. 1090) Essi - secondo la definizione del Lamboglia - erano ' fortificazioni permanenti in cui dovevano rifugiarsi in caso di pericolo gli abitanti delle campagne circonvicine e rilevano l'esistenza di un sistema difensivo dei Liguri dinanzi ai possibili attacchi greci, precedente la conquista romana e databile dal V al Il secolo a C.

La Turbie: il Trofeo d'Augusto.
E’ ragionevole supporre che rapporti si avessero anche coi Galli, ma non si possiede una soddisfacente documentazione: tuttavia, che tali contatti non sempre fossero pacifici lo si arguisce da un'affermazione di Diodoro Siculo, che anche rappresenta un lusinghiero apprezzamento sulle virtù combattive dei nostri progenitori: “Si dice che spesso nelle guerre il più vigoroso dei Galli è vinto in singolar tenzone da un gracile ligure” …
Autori latini, appunto, ci diedero le prime descrizioni dettagliate dei Liguri. Di statura non troppo rilevante, asciutti nel fisico, con chiome più spesso ricciute e fluenti sulle spalle; di pelle piuttosto scura, col viso allungato, arcate sopraciliari e zigomi notevolmente sporgenti. Il loro abito consisteva in un rozzo casaccone di pecora fornito di cappuccio e stretto ai fianchi da una cintura; le armi erano rappresentate da archi, scuri maneggevoli, fionde, brevi spade di ferro, scudi in rame di forma allungata, mediata dai Galli. Eccellevano specialmente nell'uso di fionde e frecce, con cui venivano familiarizzati sin dall'infanzia: con tali mezzi, infatti, i bimbi dovevano procurarsi il cibo, sospeso all'uopo ai rami degli alberi. Spiccatissimo il senso di individualità: di loro osserva Tito Livio - non si ha notizia di un capo che abbia esercitato un certo ascendente. Assommanti a circa duecentomila unita, contavano quindici centri più importanti, la cui popolazione non superava i ventimila abitanti. Nell’insieme non rappresentavano propriamente una nazione: avevano caratteri comuni, concernenti anzitutto le lingue, i costumi e l'origine, ma per altri aspetti le varie popolazioni differivano profondamente tra loro. Nei combattimenti sfoggiavano valore eccezionale e incredibile resistenza; e le stesse doti mostravano sul mare con le loro piccole imbarcazioni, spingendosi sempre più lontano per la pesca o i commerci. Va osservato che d'abitudine gli scrittori romani usarono insistere sulle doti combattive dei popoli con cui vennero via via in urto, per far apparire di conseguenza più prestigiose le loro vittorie: ma sta di fatto che i Liguri dovevano veramente cavarsela in modo egregio con le armi, considerando gli impieghi che conobbero, Omettendo esempi più antichi, risulta che molti di essi furono mercenari di Amilcare nella campagna di Sicilia del 480 a. C. ; e anche quando giunse il tempo dei grandi scontri fra Roma e Cartagine, in larga misura le popolazioni della nostra regione si schierarono con la seconda. Numerosissimi furono i Liguri dalla parte di Annibale, quando questi attraversò le Alpi; e nel 207 a.C., ancora, ottocento nostri progenitori si congiunsero ad Asdrubale, impegnato nel tentativo di rinnovare l'impresa del fratello: lo stesso che al Metauro. schierò i Liguri dietro gli elefanti, come moderne truppe d'assalto - fu osservato - al seguito dei carri armati". A Zama (202 a. C.), infine, ben dodicimila furono i nostri corregionali impegnati in battaglia. E che il loro apporto non fosse trascurabile, lo dimostra il divieto per i Cartaginesi di reclutare ancora combattenti in Liguria, imposto nei trattati di pace da Roma vittoriosa.
Soltanto i Genuati e probabilmente i Tigullii non avevano parteggiato per i nemici di Roma; le altre popolazioni, invece, per l'atteggiamento filo-cartaginese subirono una sorta di sanguinosa resa dei conti, in cui tuttavia seppero resistere aldilà d'ogni previsione: gli Apuani - da oriente a occidente, e trascurando le piu primitive tribù appenniniche e alpine - i Viturii, i Sabatii, gli Ingauni, gli Intemelii. I loro centri più importanti erano rispettivamente Hasta (presso l'attuale Voltri), Vado Sabatia (Vado), Savo (Savona), Albium Intemelium (Ventimiglia).

La Riviera di Ponente, tratta dal codice di Caffaro.
La vera e propria guerra fu lunghissima, tanto che fu osservato come i Romani stessi impiegarono più tempo a conquistare i Liguri che a soggiogare poi tutto il resto del mondo; con spiccata propensione alle imboscate, ai colpi di mano, Seneca rilevo a proposito di questi irriducibili combattenti che era più semplice vincerli che trovarli. Del resto, contro reparti quadrati ed esperti come quelli romani, l'unica possibilità di successo era affidata chiaramente ad azioni che oggi diremmo di "commandos". in campo aperto, ogni speranza era preclusa a priori. Per il territorio che ci compete, quando i Liguri che avevano fronteggiato gli invasori sui monti - lungo il crinale che dal colle di San Martino arriva al Tirasso - furono ricacciati fin nella pianura di Andora, vennero qui seccamente battuti: quindicimila furono i caduti, duemila i prigionieri …
Gli Ingauni furono annessi alla conquista romana dell'89 a. Cs. ed ottennero la cittadinanza nel 45, con Giulio Cesare. La Liguria, comunque, fu completamente romana soltanto con le vittorie sui Ligures Alpini di Augusto, che celebrò il successo con un fastoso monumento alla Turba, oggi La Turbie: come osservò Issel, il “monumento funebre della ligure indipendenza, irreparabilmente perduta”.
Si perse l'autonomia, ma con la presenza romana fiorì un benessere sin allora sconosciuto. E a rafforzare gli scambi commerciali si mostrano determinanti le grandi arterie stradali che i Latini vennero allestendo.
Il sistema litoraneo dovuto al censore Emilio Scauro (109 c. C.), ulteriormente migliorato da Augusto e prolungato da Vado a Ventimiglia e a Arles con la Julia Augusta, si può ammirare ancora ai giorni nostri, ricca di soluzioni architettoniche prestigiose. Fra queste il ponte sul torrente Merula, presso il castello di Andora, e quell'altro di Albenga, di ben dieci arcate e della lunghezza di 146 metri, gettato sul Centa.
Il corpo epigrafico di Ventimiglia e Albenga ci dice quanti liguri furono tribuni nell'esercito, centurioni, prefetti; Proculo, latifondista di Albenga, nel 276 addirittura fu proclamato imperatore dalle sue truppe, a Lione, anche se poco dopo doveva essere ucciso da Probo, nella lotta per il supremo potere. Molti liguri, del resto, ebbero parte nella grande vittoria di Mario contro i Teutoni alle Aquae Sextiae, oggi Aix - en - Provence (102 a.C.), e con lo stesso condottiero avevano combattuto quattr' anni prima nella spedizione africana contro Giugurta; come marinai, ancora, numerosi nostri corregionali presero parte alla campagna contro i pirati condotta da Pompeo Magno.
Nell'età romana il centro della valle andorese - pagus, cioè borgo era presso la strada Julia Augusta, molto probabilmente ai piedi del Castello, e di Capo Mele, sulla sinistra del Merula, là dove esistette nel Medioevo il priorato benedettino di San Martino di Andora.
Sarà bene ripetere che scarse, frammentarie e malsicure sono le testimonianze degli antichi intorno alle origini dei Liguri. Catone afferma che neanche essi sapevano donde fossero oriundi. Alcuni scrittori li ritenevano greci, altri iberici ed altri ancora celtici. Una secolare tradizione confortata anche dallo storico Serra vuole che un gruppo di Focesi che si recavano in Corsica per sfruttare i giacimenti di sale avrebbero costruito intorno al 753 a.C. (quindi prima di Roma) Andora, creando altresì nella rada a ridosso del Capo delle Mele sino alla foce del Meira, un approdo di sicuro ancoraggio per lo sbarco del sale.

Ponte Romano: veduta particolare
La congettura che Andora sia stata fondata prima di Roma sembra la più attendibile infatti attraverso un'indagine toponomastica i nomi di luogo di origine latina e neolatina risultano 1'86 per cento, quelli di origine gallica il 7 per cento, quelli di origine germanica il 3,5 per cento e quelli di origine incerta ma comunque preromana, in prevalenza ligure, il 3,5. I nomi di alcune località (Rollo, Conna, Metta) sfuggono ad ogni tentativo di ricostruzione toponomastica e sono certamente antichissimi: in particolare Conna pare che significhi "casa presso la sorgente"; da notare che il territorio di Conna è effettivamente interessato da sorgenti. Ciò che avrebbe invogliato i Focesi a scegliere la zona come punto di imbarco e di sbarco per lo sfruttamento delle miniere di sale in Corsica è stato che la rada a ridosso del Capo delle Mele è riparata dai venti di ponente e di maestro; che alla foce del Meira (ora Merula) ci sia stato un approdo è dimostrato dal rinvenimento nel secolo scorso alle falde del poggio (di Castello) di alcuni anelli in ferro usati negli approdi; anticamente il mare si spingeva molto più addentro: vedi anche il nome della località Marino, nel Portolano del 1300, Andora figura poi come stazione navale col nome di "Melle Dandolla". Il nome di Andora sarebbe di origine greca come Lerici - Portovenere - Sori eccetera. E poi noto che i Liguri, espandendosi, fondarono colonie che chiamarono col nome del luogo di origine: Andora sempre secondo l'attendibile ipotesi dello storico Serra, avrebbe originato Andura (l'attuale Andorra) nell' antica Iberia.
IL MEDIO EVO
Già nel 401 la Liguria Occidentale conobbe l'impeto dei Barbari: precisamente con Alarico, calato in Italia per le Alpi Giulie alla testa dei suoi Visigoti. Minacciato da Stilicone, comandante militare dell'Impero Romano d'Occidente, dalla Toscana si portò a marce forzate alla valle occidentale del Po, ma a Pallenzo subì una netta sconfitta.

I ruderi di ' 'Paraxo


Veduta aerea del Castello di Andora. All'interno della cinta emergono al centro il Paraxo con l'oratorio di San Nicolò e la chiesa dei Santi Giacomo e Filippo.
Nel suo veloce spostamento aveva percorso le strade dell'Appennino e della Riviera, e in questa circostanza Albenga e il territorio circostante furono messi a soqquadro. Nel 410, poi, fu la volta di Ataulfo, cognato e successore d'Alarico stesso: dall'estremo sud della penisola, dove il suo popolo era finito, col proposito di portarsi nelle Gallie risaliva verso il settentrione … Vado, Albenga, Ventimiglia e i borghi compresi tra questi maggiori centri subirono il saccheggio.

La fontana medievale
Anche dei Vandali, delle loro temibilissime incursioni dal mare rimangono tracce in varie leggende; e notizie appena più circonstanziate abbiamo dei Longobardi di Rotari. Nel 641 questi penetrò in Lunigiana, devastò Luni, superò il Bracco, irruppe in Genova, proseguì sullo slancio, ponendo a sacco Vado, Albenga, insomma tutta la Riviera. Fredegario, cronista dei Franchi, così scrive a proposito del terribile Rotari e delle località attaccate:
“devastò, distrusse, incenerendole con l'incendio, ne annientò la popolazione, la spogliò e condannò alla schiavitù, distruggendone le mura sino alle fondamenta” …

Chiesa dei Santi Giacomo e Filippo: disegno eseguito dal D 'Andrade nel 1883
Oggi però si tende a credere che la conquista non sarebbe stata catastrofica quanto vuole la tradizione.
Comunque, le fortune longobarde in Italia durarono sino al 773, anno in cui vennero sovvertite dai Franchi di Carlo Magno. A questi - per quanto ci concerne - si deve l'allestimento di due flotte, l'Aquitanica e l'Italica, in funzione anti-araba. La seconda nacque dalla riunione delle navi dell'Italia centrale e settentrionale, e la Liguria vi ebbe un ruolo prevalente, godendo - al pari degli altri territori interessati - dell'esenzione da tributi d'ogni sorta. E poichè le azioni moresche non si limitavano alla depredazione di navi, ma anche - e in misura via via maggiore - comprendevano irruzioni a terra e saccheggi, pure i centri a relativa distanza dalla costa furono integrati nel sistema, collaborando alla difesa comune con armati e somme rapportati alle singole disponibilità.
I capitelli del portale.
Tutto questo non impedì ai Saraceni di completare la conquista della Sicilia (827), ma rese impossibili successi consimili nell'alto Tirreno. Tuttavia gli eredi di Carlo non si occuparono con egual cura del problema, e il Mediterraneo finì per rimanere per lungo tempo alla mercè dei Musulmani, muoventisi soprattutto da basi sarde e corse. Terribili risultati, devastazioni e saccheggi, tanto da superare quelli condotti in precedenza dai Barbari. In tutta la costa della Liguria, ma in particolar modo in quella Occidentale, come della Provenza, rimangono testimonianze di ciò: resti di torri, castelli e fortificazioni sbrecciate, cui si attribuiscono origine saracena o funzione anti-araba. Più che dal mare, tuttavia, le maggiori sciagure dovevano venire dalla terra stessa …
In un certo anno - imprecisabile, sebbene Liutprando da Cremona proponga 1'888 - un gruppo di Arabi raggiunse il golfo di Saint Tropez, forse per naufragio. Si stabilì nel cosiddetto Frassineto, un territorio abbastanza esteso del Frejus, delimitato a sud dal mare e a nord da vette nevose: per circa ottant'anni doveva spargere il terrore tutt' attorno, via via anche a distanza considerevole dal primitivo insediamento. "Frassineto" significherebbe da una voce araba "luogo fortificato": e anche se quello del Frejus rimase il Frassineto per antonomasia, si chiamarono nello stesso modo i luoghi fortificati che gradatamente - ad ampliare il loro irraggiamento - quei guerrieri munivano ai più idonei valichi alpini e nei punti maggiormente adatti della costa provenzale e ligure. Ovviamente imperversarono dapprima nella contea del Frejus, ma più tardi conobbero distruzioni Ventimiglia, Bussana, Sant'Ampelio, Dolceacqua, Sanremo: ogni centro della costa e del prossimo entroterra, insomma, sino ad Albenga.
Si ebbe così l'esodo di intere popolazioni verso i luoghi più aspri dell'interno, quindi più agevolmente difendibili. Un'impresa asperrima, considerando l'eccezionale attitudine alla guerriglia di montagna di quei mussulmani, rinvigoriti via via da nuovi rinforzi. E coloro che accettavano l'invito a correre l'alea di buoni bottini ma anche di rischi continui, necessariamente dovevano essere i "disperati" d'Africa, di Spagna e di Sicilia, gli esiliati, gli indesiderabili. Ma le loro file erano pure arrotondate da ragazzi rapiti e allevati secondo le particolari esigenze, e infine dai "pravi Christiani" o "perfidi uomini": membri della più umile classe sociale, che per strapparsi dal giogo della servitù della gleba non esitavano a far causa comune coi Mori, a volte persino distinguendosi in determinazione e ferocia.
Naturalmente l'imperversare di quei Musulmani preoccupava le diverse potenze interessate, ma vari tentativi di stroncare il fenomeno fallirono del tutto o diedero appena un sollievo momentaneo: pieno successo si ebbe soltanto attorno al 980, con Guglielmo d'Arles. Il Conte promosse una sorta di crociata, responsabilizzando quasi tutti i signori di Provenza e di Liguria, e gli Arabi del Frassineto vennero annientati in tutta una serie di scontri sanguinosi. Le popolazioni in buona misura lasciarono le sedi d'emergenza, i piccoli centri nati dalle necessità, per ritornare alle valli, alla costa.

Una nave da battaglia secondo un 'antica stampa.
Intanto s'era avuto un'importante trasformazione politica. Berengario d'Ivrea con non facile lotta era divenuto re d'Italia: per esigenze difensive, e anche per mostrare la sua gratitudine a coloro che maggiormente avevano avuto parte nel suo successo, diede un nuovo aspetto all'Italia Occidentale. Nacquero così le Marche: di Torino, di Genova, di Savona, dette anche dal nome dei rispettivi reggitori - Arduinica, Obertenga, Aleramica. Nel placito di Pavia, del 945, costoro conservavano ancora il titolo di Conte, ma già nel 951 venivano indicati quali Marchesi. Ognuna delle tre entità comprendeva una parte marittima e più esteso territorio interno; nella prima spiccavano Ventimiglia e Torino; nella seconda, Genova, Luni, Tortona, e successivamente Milano e forse Bobbio; nella terza, Savona, Albenga, Alba, Acqui, Asti e buona parte del Monferrato.
Una suggestiva leggenda intende spiegare, con dolce poesia, proprio la nascita della Marca Aleramica. Conosce naturalmente qualche variante, e noi la presentiamo nella versione da M. Dolcino:
“Una giovane coppia tedesca decise di recarsi a Roma in pellegrinaggio devoto. Passò in Italia, ma indugiò particolarmente attraverso il Piemonte; un po’ per godere il paesaggio attraente, e molto di più per l'incipiente maternità della donna, che a Sezzadio, non lontano da Acqui, diede appunto alla luce un bimbetto. Il loro voto era stato solenne, e non potevano certo interrompere il viaggio; affidarono quindi ad una contadina il piccolo Aleramo come era stato chiamato - e proseguirono alla volta di Roma. Era scritto però che non dovessero rivedere il figlio; giacchè entrambi si spensero sulla via del ritorno, per qualche oscuro morbo.
Aleramo non pareva nato sotto una stella premurosa, considerato che di 17 a poco anche la nutrice passò a miglior vita; ma proprio a questo punto per la prima volta si interessò a lui la buona sorte, che tutto sommato doveva anche in futuro riservargli un trattamento preferenziale. Un ricco gentiluomo, infatti, si occupò del bambino, impietosito dal caso ma anche mosso dalla sua eccezionale bellezza: per qualche tempo lo tenne con sè, poi lo inviò alla corte di Ottone I di Sassonia, più tardi anche Re d7talia e Imperatore. Sempre più bello, di nobile indole, il monarca finì per investirlo cavaliere e crearlo coppiere alla sua mensa: involontariamente creo quindi i presupposti - con la quotidiana vicinanza per l'amore della figlia, la principessa Adelasia o Alasia
Anche Aleramo si accese di lei, ma conscio delle distanze, mai avrebbe osato rivelare i suoi sentimenti; pero quando la giovane, assuefatta al comando, gli ordinò di rapirla, non seppe opporre che deboli e superabilissimi argomenti.
Fuggirono in Italia - su un destriero bianco e rossa precisa la leggenda, dandoci non soltanto qui un particolare da vecchio arazzo - e si stabilirono in Liguria, alle falde del monte Tirasso, come territorio più remoto alle ricerche prevedibili del padre.
Dimentico dello sfarzo di corte, Aleramo di buon grado s'era trasformato per l'incantevole sposa in boscaiolo e carbonaio, prodigandosi per le bocche sempre crescenti: Alasia, infatti, già gli aveva dato sette bimbi, quando accadde ciò che doveva ancora una volta mutare radicalmente la sua vita.
Spesso si recava ad Albenga per esitare i suoi umili prodotti, e proprio là apprese la grande notizia: presto sarebbe giunto l'Imperatore, deciso a guidare di persona una spedizione contro i Mori. Spinto da Alasia, che mai aveva rinunciato alla speranza del perdono paterno, rivelò ogni cosa al Vescovo, il suo migliore cliente, ma questi non si mostrò troppo ottimista: Ottone, che già era in Albenga, esitava un pessimo umore . . . Per i timori che gli venivano dai saraceni, naturalmente, ma anche per le sue private vicende e le condizioni di salute. L'appetito, ad esempio, pareva affatto rovinato, e nessun manicaretto veniva gradito dall'augusto palato.
Ricordando la Germania, le regali cucine e i gusti di Ottone, Aleramo propose un cinghiale arrostito secondo particolari regole: era certo che quello l'avrebbe ben disposto ad accettare la rivelazione. Tutto si svolse come il giovane aveva previsto, ma il Vescovo che s'era preso l'incarico di spiegare all'Imperatore l'accaduto ancora non si sentiva sufficientemente tranquillo. Accettava Aleramo di partecipare al torneo del giorno seguente, recando i colori vescovili? In caso di vittoria sarebbe stato ammesso alla presenza del monarca, e il successo stesso - conoscendo le inclinazioni - avrebbe rappresentato il miglior mezzo per raggiungere il perdono.
Anche se da anni era più avvezzo alla scure che alla lancia e a reggere ceppi piuttosto che lo scudo, Aleramo accettò: sperava di non aver dimenticato quanto aveva appreso sulle arti cavalleresche, e per Alasia si sarebbe impegnato alla morte. Scese in campo, infatti, e trionfò. Gli fu concessa la sperata udienza, tuttavia il Vescovo - ancora timoroso - preferì farlo precedere dai sette bambini. Ottone ne lodò la bellezza, ma anche chiese chi fossero: quelle fisionomie certo gli ricordavano qualcuno. A questo punto il buon Vescovo introdusse Aleramo e Alasia.
L'esplosione di collera fu di brevissima durata: dopo tutto il sovrano era stanco di angustiarsi per loro. Li perdonò, e anzi, conoscendo perfettamente le doti del genero, confermate dal torneo, di lì a poco gli fece una favolosa proposta. Si trattava di percorrere a cavallo, in tre giorni, la maggior estensione di terreno possibile: tutto gli sarebbe stato concesso, in una Marca a lui intitolata, e come Marchese avrebbe aiutato Ottone nella lotta contro gli Arabi.
L'imperatore non dovette ripetere l'invito. Aleramo balzò in groppa ad un morello e spari a spron battuto, deciso a donare ad Alasia un territorio degno di lei. Galoppò, galoppò senza tregua verso l'interno, e una sola volta si trovò in imbarazzo, quando lo stallone perse un ferro. Chiese febbrilmente di un maniscalco, ma senza fortuna; cercò almeno un martello perdendo altro tempo prezioso, ma non ebbe maggior successo; finalmente trovò un mezzo mattone e con quello inchiodò il ferro …
Tornò al mare, e Ottone solennemente riconobbe la Marca Aleramica. Ma almeno due toponimi, ancora, la leggenda vuole spiegare: Monferrato, che deriverebbe da "Mon frà", il “mattone ferrato” del contrattempo di Aleramo, e Alassio, il paese non lontano dal monte Tirasso, che sarebbe nato dal nome della dolce principessa”.
Altri, tuttavia, fanno derivare il nome della stessa Alassio da un'Adelaide, marchesa di Susa e feudataria del territorio. Nel 1091, comunque, alla morte di questa il comprensorio passò a Bonifacio, marchese del Vasto, che nel 1125 lo lasciò al figlio Ugo, marchese di Clavesana, e al di lui fratello Anselmo. Centro del feudo divenne Diano Castello, con la residenza fortificata dei marchesi, anche se il castello originario pare fosse ad Evigno, all'estremo nord, a difesa della valle.
Altro maniero dei Clavesana sorse ad Andora nel 1170; anno in cui essi operarono la riorganizzazione del Comitato: in posizione fortificata, sul poggio dominante la valle e la strada romana. Tipico esempio di recinto fortificato, divenne il centro di tutta la comunità e la chiave di accesso alle valli occidentali del Comitato d' Albenga.
Ai piedi del Castello di Andora e di Capo Mele, sulla sinistra del Merula, dove una comunità a sè stante rilevò l'antica romanità, esistette il priorato benedettino di San Martino di Andora, filiazione dell'Abbazia della Gallinara. I monaci furono scacciati dall'Abbazia quando - fallito l'assedio di Andora - i ghibellini tentarono l'occupazione di Albenga con l'insediamento sul monte San Martino. L'assedio della città ebbe inizio, e dopo vari insuccessi essi finirono per avere la meglio sui Guelfi; Albenga cedette così ad Enrico del Carretto, che vi fece ingresso trionfale e ne divenne Podestà.
Complessivamente, comunque, si può affermare che alla struttura municipale romana si sovrappose quella altrettanto capillare del Cristianesimo, organizzata in pievi, chiese matrici e chiese minori. Così nella piana dianese il tempio dei Santi Nazario e Celso e quello di San Siro, eretti su resti di età romana imperiale; fra Diano e Cervo la chiesa di N.S. della Rovere, oggi Santuario, dalle misteriose origini romane, che testimonia con l'intitolazione stessa l'esistenza dell'originaria foresta sacra.
Antichissima pure la chiesa di Diano San Pietro, di cui si sa che fu pieve matrice e chiesa battesimale a capo dell'organizzazione religiosa di tutte le vallate dianesi. Per la valle di Andora, matrice delle chiese è San Giovanni Battista, sorto in corrispondenza del ponte romano, sul tracciato della via Julia Augusta; così come l'antico tempio di Sant'Anna ai Monti, sulla collina fra Alassio e Albenga.
Il castello appartenne ai Clavesana sino al 1237, quando essi vendettero metà del feudo a Emanuele e Lanfranco Doria, per cederlo poi definitivamente a Genova nel 1252, contro pagamento di 8.000 lire.
Nel secolo XII iniziarono a svilupparsi gli aneliti d'indipendenza delle comunità locali. Nell'ottobre del 1172 Diano Castello si riscattò mediante 3.000 lire - oro dal dominio dei Clavesana: si costituì così un libero comune, con diritto di eleggere propri consoli ed esercitante un controllo sugli altri paesi della vallata e su Cervo, passato nello stesso secolo XII sotto i Clavesana. Da allora la comunità di Diano diventò alleata di Genova, cui s'era sottomessa: conservò i propri statuti, ma il Podestà fu sempre genovese.
Lo stesso avvenne per Laigueglia: i suoi signori attorno alla fine del secolo giurarono fedeltà alla Repubblica di San Giorgio, che concesse alla popolazione il privilegio di eleggere un proprio Podestà.

Esempi di macchine guerresche (da G. Dorè)
Nel 1228, poi, Genova doveva acquistare da Ottone e Bonifacio di Clavesana i territori di Andora, Cervo, Diano Castello, e nel 1239 riconoscere Cervo come libero comune, munendo di mura e fortificazioni il già esistente “Castrum Cervi”. Andora, in particolare, quale possedimento genovese vide rafforzare le opere difensive del suo Castello, nel 1321 teatro dello scontro fra Guelfi (Genova) e Ghibellini (Albenga); ma presto perse importanza, tanto da venir abbandonata fra il XV e il XVI secolo. Sintetizzando, quindi, diremo che la già ricordata chiesa di San Giovanni Battista di Andora fu il primo fulcro attorno al quale si organizzò la vita della valle in epoca medievale, prima che sorgesse il centro feudale del Castello. Tale complesso fortificato verrà poi abbandonato gradatamente dalla comunità, a causa di due pestilenze e dell'insediamento lungo il Merula (1493-1524). Il quale verrà a sua volta abbandonato, per l'impaludamento del torrente stesso.
Del resto, numerosi furono gli insediamenti d'origine medievale concernenti il Merula. Sulla riva sinistra, le località di Colla Micheri, Castello, Marino, Merlotti, Negri, Costa, Pianrosso, Piazza, Costa d'Agosti, Divizi, Tigorella; sulla riva destra, Rollo, Confredi, Ferraia, Duomo, Garassini, Conna.
Peraltro le lotte intercorrenti fra signori feudali e Genova diedero sviluppo a gran parte dell'organizzazione strategica insediativa delle valli, secondo lo schema di presidio e di difesa che rimarrà praticamente invariato. Come la fitta schiera di castelli nelle posizioni più importanti testimonia il dominio e la crescente influenza dei Clavesana, dei Marchesi di Ceva, dei Conti di Laigueglia, dei Del Carretto.
La forzata vendita del Castello, imposta ai Clavesana dalla Repubblica di San Giorgio, avvenne nel 1252. La potenza genovese si affermava nell'Occidente ligure, ma prima dovette fare i conti coi ribelli che esplosero in rivolta nella valle d'Oneglia (1233) e in quelle di Vellego, Andora, Stellanello. Obiettivo principale era quello di liberarsi della soggezione feudale e ottenere l'autonomia, Il 12 settembre dello stesso anno, i Genovesi convocavano i capi delle valli in rivolta, per sancire la definitiva sottomissione e avere mano libera per intervenire legalmente contro i ribelli. La serie iniziò con Anselmo di Laigueglia, che giurò fedeltà alla Repubblica e cedette i diritti nelle valli di Andora e di Stellanello, il castello di Teco, e Zuccarello; salvi i privilegi dei Clavesana e i patti di Andora e Stellanello così come stipulati nel 1228. In nome di questi i due Comuni dovevano provvedere all'esercito e relativi obblighi verso Genova, con facoltà di Andora di usufruire della gabella sul sale – già pagata ai feudatari - e per Stellanello di godere dei diritti di pascolo e coltivazione nelle terre possedute nel distretto di Diano.

Il Vescovo di Albenga Emanuele Spinola, colpito a morte durante l’assedio al Castello.

Castello di Andora. Interno del Paraxo.
La presenza della Repubblica fece sentire il suo peso nel Ponente, soprattutto costringendo i nobili a pagare tributi sino a privarli completamente di risorse, costringerli ad indebitarsi e vendere le loro proprietà a privati genovesi: così - come già si è detto - nel 1235 Andora e Stellanello divennero proprietà di Emanuele e Lanfranco Doria per una parte, mentre l'acquisizione veniva completata dalla parte della Repubblica nel 1252. Così un rappresentante genovese sostituì il vassallo clavesana nel “Paraxo”: l'antica residenza dei feudatari, risalente alla fine del 1100, fra la chiesa dei Santi Giacomo e Filippo e il Castello, che ancor oggi mostra resti pittoreschi quanto imponenti.
L' EPOCA MODERNA
Negli anni successivi la storia del Ponente si identificò con quella genovese, naturalmente non senza temperie. Più notevole, nel primo scorcio del XVI secolo, il tentativo vasto di ribellione, nell'anelito di ritrovare il proprio ruolo in antitesi a Genova: quando questa, appunto, era sottomessa alla Francia. Il trattato di Madrid del 1528 doveva però legare la Repubblica alla Spagna, sottraendola alla sfera francese e conferendole definitivamente la supremazia sull'intera Liguria.
Fu questo, anche, un momento di transizione dell'architettura fortificata, alla ricerca di forme più idonee a resistere alle armi da fuoco in costante perfezionamento. Nuove fortificazioni, fra cui in primo luogo quelle di Savona, rafforzarono e riorganizzarono le difese costiere contro le incursioni di orde piratesche e dei Turchi alleati della Francia contro la Spagna: venne creata tutta una catena costiera di torri, torrioni e fortini a pianta quadrata, rinsaldata agli angoli dai bastoni o torrioni circolari con base a scarpata, che tuttora si conservano da Ceriale a Vallecrosia.
I danni al patrimonio castellano arrecati nel '700 dalla guerra di successione austriaca e - tra la fine del secolo XVIII e il primo scorcio del successivo - dalle campagne napoleoniche, fecero intraprendere dopo l'annessione della Liguria al Regno di Piemonte una nuova serie di fortificazioni per opera del Genio Militare, che rivela un carattere costante: le abitazioni rimangono per così dire aggrappate al pendio e sottostanti al fortilizio, protette dalle sue mura: così per Andora.
Andora, appunto, raggiunse il massimo sviluppo nel periodo che va dal '600 all'800: il sicuro ancoraggio, protetto dai venti a ridosso di Capo Mele, il mare pescoso e l'aria salubre rappresentarono i presupposti per l'insediamento di molti, soprattutto pescatori. Una remota tradizione vuole che un primo contingente giungesse dalla Catalogna, ma l'origine della popolazione è documentata dai nomi leggibili nei documenti d'archivio: famiglie di Alassio, Albenga, Cisano Vellego, Pieve di Teco, ma anche dello Stato di Napoli, di Corsica e di Sardegna, che peraltro in buona misura si trasferirono in epoca successiva a Laigueglia, sotto la minaccia di incipienti febbri palustri.
Le famiglie benestanti di Andora e Stellanello rispondevano ai nomi di Gaggino, Marchiano, Galleano - fra altri - Guardone, Cavassa, Stella.

Mezza armatura (sec. XVII) e borgognotta.
Esse possedevano ville e terreni nella vallata, divisa in cinque quartieri: San Giacomo, Laigueglia, San Pietro, Sant'Andrea, San Giovanni.
Il Parlamento risultava formato da cento persone, scelte in numero di venti per ognuno dei detti quartieri. Un Consiglio, inoltre, comprendeva ventotto membri: sei Anziani, tre Censori, altrettanti Estimatori, oltre a sedici componenti privi di cariche specifiche. Nel maggio d'ogni anno si riunivano i due Consigli dei Cassieri, scelti fra i più cospicui possidenti, per procedere al rendiconto del bilancio, poi approvato dall'Illustrissimo Capitano, in Porto Maurizio. A turno veniva nominato il notaio, Cancelliere della Comunità.
Il Castello col suo borgo era la sede delle pubbliche adunanze, che avevano inizio al suono della campana maggiore e con la presenza di quattro Magnifici Anziani, di due terzi del Magnifico Parlamento e del Consiglio, ossia rispettivamente sessantasette e diciannove persone.
Successivamente, residenza della curia divenne Laigueglia, che ottenne l'autonomia dopo una confusa e tumultuosa divisione delle carte comunali, le quali trovarono poi l'esatta collocazione nell’archivio riconosciuto di spettanza di Andora.
Ancora, facevano parte dell’amministrazione magistrati detti Conservatori delle Leggi, Censori - scelti come i precedenti dal Parlamento - preposti all'annona, per stabilire calmieri e curare il buon andamento economico; un tesoriere, scelto fra i Consoli, cui veniva affidata l'amministrazione del denaro pubblico. Gli eletti duravano in carica un anno e non potevano rifiutare l'incarico, che fra l’altro non era remunerato.
Alla scadenza del mandato i Consoli rendevano conto della loro gestione al Consiglio, che ne verificava la legittimità mediante quattro Revisori. Scarse erano le entrate, legate all'appalto del pubblico macello e alle gabelle che concernevano l'introduzione del vino, del grano e dei legumi. La popolazione, sobria e di semplici costumi, viveva in un certo benessere; gli scarsi reati erano puniti inflessibilmente, e la moralità era salvaguardata al punto da espellere chi vivesse in concubinaggio.
Dediti alla pesca, gli Andoresi ricavano da essa di che vivere. I pescatori non avevano una paga fissa: spettava loro un terzo del ricavato, mentre al proprietario del battello spettava altrettanto; l'ultimo terzo andava in conto deterioramento del battello stesso e delle reti. Queste erano lavorate dagli Andoresi medesimi, mentre i cordami si acquistavano alle fabbriche di Alassio o Savona. Buona parte del pescato finiva in salamoia e veniva trasportato in luoghi vicini, quali Cervo, Diano, Oneglia, Albenga. E da notare comunque che col prosperare del commercio molti preferirono il mestiere del marinaio a quello del pescatore.
La pesca del corallo era esercitata su vasta scala, rappresentando un 'attività più che lucrosa. Tale pesca - per alcuni avviata dagli Spagnoli, che per primi avrebbero scoperto i preziosi banchi nel golfo - diede particolare impulso e fama al paese: fu essa a creare la fortuna delle principali famiglie.
Le imbarcazioni impiegate, dette fregate, mostravano due alberi e vele latine; equipaggiate con otto-dieci persone - compreso il muciaccio, cioè il mozzo - costituivano vere e proprie flottiglie. Il battello, con due banconi inchiodati l'un sull'altro a forma di croce, era guidato da un esperto marinaio che calava in mare uncini connessi con funi alle quattro estremità dei banconi; sotto gli uncini stessi si aprivano borse di tela, e al di sopra era sistemata una rete. Appena gli uncini prendevano fondo, il marinaio faceva opportunamente girare il battello, schiantando così i coralli; le borse e la rete raccoglievano i rami divelti. Uno di tali banchi, fra Capo Mele e la Gallinara, era tristemente noto come Scoglio delle Vedove, tanti erano gli uomini che vi avevano trovato la morte.
Pure le costruzioni navali, tuttavia, davano sostentamento a molti operai, mastri d'ascia, calafati. Il legname occorrente veniva trasportato dai boschi vicini di Andora e Stellanello. Con l'avvento del governo francese, peraltro, tale attività confluì nei cantieri genovesi della Foce.
Notevole rinomanza ebbe pure la tessitura: tele di lino, canapa, cotone e lana, pezze particolari per tovaglie, fustagno, -lanetta, cotonina per lenzuola e robustissima tela da vele. Altre attività fiorenti erano quelle dei mobili, pregiati soprattutto per l'intarsio e i colori, applicati con procedimenti segreti; dei calzolai, ancora, e dei fabbri-ferrai, i quali assicuravano ai dipendenti paghe giornaliere da 2 a 1 lira, a 14 e anche 12 soldi.
Naturalmente aveva importanza pure l'agricoltura, almeno per ciò che riguarda gli orti e i giardini, coltivati a viti, ad alberi fruttiferi, a ortaggi; le olive, le granaglie, gli agrumi e l'uva costituivano risorsa di non poco conto, e apprezzatissimi dai patrizi genovesi erano appunto i vini di produzione locale, volentieri conservati nelle cantine polverose.
Comunque, principale fonte di ricchezza rimaneva il commercio marittimo. Capitani di bastimento erano i padroni, addestrati sin da giovani ai segreti della navigazione: pratica e onestà erano titoli sufficienti ad ottenere il comando di un bastimento con cui percorrere il Mediterraneo e il Mar Nero. Esistevano però anche Capitani di lungo corso 'di nautica ' come allora si diceva - che compivano viaggi di lunga durata, oltrepassando lo Stretto di Gibilterra per raggiungere le Americhe e realizzare più vistosi guadagni.
I porti di Genova, Marsiglia, Livorno, delle Due Sicilie, della Sardegna e del Levante erano le mete ambite per investire vantaggiosamente i propri capitali con l'acquisto di merci di consumo.

Andora - Frantoio per torchiatura a mano delle olive,
Prodotto di maggior commercio era l'olio, trasportato in bastimenti di grossa portata dalla Calabria, dalla Puglia, dalla Sicilia e da Tunisi; depurato e convenientemente miscelato, era poi inviato a Marsiglia e altre città francesi. I capitani di queste unità disponevano di un capitale - il fondo - formato da azioni denominate "parti in colonna' alla fine d'ogni viaggio, dato preciso rendiconto dell'impiego del denaro, si procedeva alla distribuzione degli interessi agli azionisti o partecipi.
Allo stesso modo i negozianti ricevevano capitali a fido, che impiegavano in acquisti presso i vari centri di deposito o di produzione: una forma di società in accomandita, che mostra di quale stima godevano questi antichi padroni.
Questi ultimi si scambiavano nel caso reciproco aiuto, anche se interessato, partecipando agli affari e alle imprese degli altri. La spiegata bandiera della Repubblica, l'artigliere di bordo impegnato nel salutare San Matteo patrono, erano i festosi segni dell'approdo, cui facevano seguito lo scarico, il rendiconto e la ripartizione degli utili; al proposito erano ovviamente considerati i rischi del bastimento e dell'equipaggio, che partecipava a una parte dei guadagni e godeva del beneficio di trasporto per le provviste destinate alle proprie famiglie, esenti da “censaria”. Una parte degli utili, ancora andava alla chiesa parrocchiale, all'ospedale, all'Opera del Purgatorio". Amor di patria congiunto ad una viva fede si esternavano in pubbliche cerimonie di ringraziamento e di propiziazione, quali tridui, novene e processioni per scongiurare intemperie e calamità. Era la fede, appunto, ad alimentare in primo luogo il cuore e la mente di chi intraprendeva nuovi viaggi: i santuari e le chiese, ricchi di ex voto sono tuttora testimonianze dei sentimenti religiosi dei nostri antenati.
Sentimenti di fratellanza, appunto, facevano sì che ogni abitante avanzata la debita domanda - ottenesse la quantità di grano e vino necessarie alle provviste familiari, al prezzo d'acquisto ed entro tre giorni dallo sbarco della merce.
Nel 1797 cadde a Genova l'arcisecolare Repubblica aristocratica; il nuovo governo, ispirato per necessita politiche alla nuova costituzione francese, comprendeva un corpo legislativo e un direttorio esecutivo. Lo stato ligure venne ripartito in venti giurisdizioni; Andora apparteneva a quella del Capo delle Mele. Ben presto tuttavia le cose cambiarono; in particolare, la critica situazione finanziaria costrinse fra l'altro ad ordinare la requisizione degli oggetti sacri d'oro e d'argento posseduti dalle parrocchie - naturalmente a favore dello Stato - e autorizzare la vendita coatta dei terreni appartenenti al Demanio.
A capo del Consiglio che amministrava il Comune era un agente municipale, un segretario o Protocollista e un usciere; la scelta dei Consiglieri, anzichè dal corpo elettorale, era fatta dal Commissario del Governo sulla base di due o più liste, che i municipi sottoponevano alla sua approvazione. Estesissimi erano i poteri che i presidenti dei cantoni avevano o si arrogavano. Punizioni severe venivano inflitte persino a uomini ragguardevoli, senza troppi riguardi, per aver mancato di rispetto alle autorità in qualche modo; e indicativo, al proposito, suona un unico episodio. Una domenica, i membri della comunità, occupati in ufficio, inviarono l'usciere ad avvertire il sacerdote di ritardare l'inizio della messa. L'usciere, non potendo parlare direttamente con l'interessato, comunicò l'ordine ai due chierici della parrocchia; questi dimenticarono di riferire l'ambasciata ricevuta, per cui i funzionari giunsero quando la messa era quasi al suo termine. La dimenticanza dei chierici fu punita con gli arresti.
Condanne severe sortivano pure le canzoni oscene e il disturbo della pubblica quiete. Fatti di violenza, sassaiole di ragazzi e furti trovavano perfetta repressione nel pronto intervento dei responsabili, con radicali provvedimenti consistenti in arresti, multe cospicue, allontanamento dal paese. Gli arresti erano eseguiti dall'usciere, e il mantenimento dell'ordine pubblico era affidato alla Guardia Nazionale, ricalcata sugli schemi di quella francese.
Interi reggimenti, comandati da uomini quali Massena, Bonaparte, Championet, nonchè reparti austriaci che s'erano alternati a quelli francesi, transitavano continuamente per il paese, gravandolo con requisizioni di quadrupedi, di armi e di viveri, come pure requisizioni di battelli. I cittadini si trovavano spesso esposti alle violenze e ai soprusi di militari, come pure erano costretti a fornire alloggio ai feriti e ai reduci. La presenza delle truppe, il loro contatto colle famiglie apportarono corruzione ed epidemie; gli annali dell'epoca registrano casi di stupro e di violenza ai danni di minorenni, procurati aborti e infanticidi. Molte vittime, ancora, furono mietute dalla fame, dalla carestia e da malattie infettive.
A tre Censori era affidato il compito di vigilare sui commestibili e le bevande: essi seppero assolvere il compito con zelo, procurando il frumento, trasportato per mare. Nel periodo della carestia del novembre 1799 vennero emanate grida per il controllo dei generi alimentari essenziali e in primo luogo del pane; il flagello ebbe termine soltanto il 15 giugno 1800, con la risolutiva vittoria del generale Bonaparte sui campi di Marengo.
Intanto le casse municipali - più che provate dalle ingenti spese per il mantenimento delle truppe d'oltralpe - col loro pressochè totale esaurimento provocavano aumenti dei generi di prima necessita: in particolare furono imposte tasse sugli approdi dei bastimenti e sulle macine del grano. Nè trascurabili furono le calamità legate alle incursioni dei pirati barbareschi, gente audace e crudele che abbordava le navi dopo irresistibili inseguimenti, se ne impadroniva e traeva in schiavitù gli equipaggi. Anche, irrompevano dal mare nelle abitazioni di paesi indifesi, mettendoli a sacco e massacrando coloro che tentavano di opporsi. Comunque, atti di vero eroismo per la difesa costiera non si contano, e nomi quali quelli di Vincenzo Maglione e Antonio Stalla, di Laigueglia, onorano la marina ligure e ne illustrano l'esperienza e il coraggio.
Per difendere le loro navi da predoni e filibustieri, gli armatori presero ad assoldare "corsari"' le navi stesse, comunque, vennero rese adatte alla resistenza con un vero e proprio arsenale.

J. Chabord: ritratto di Napoleone (1810) - Roma, Museo Napoleonico.
Il Paese, poi, era difeso da tre torri per eventuali attacchi dal mare. Proprio per una torre, detta il Ciglione, di cui si fa menzione già in carte del 1576, nacque una spinosa controversia, risolta soltanto nel 1605 mediante un compromesso: in forza di questo la Magnifica Comunità di Andora doveva pagare in perpetuo alla Magnifica Università di Laigueglia lire 160 annue, per la manutenzione del forte, la provvista di munizioni e la paga al bombardiere … La posizione del forte è dichiarata nel compromesso stesso, cioè sul Capo delle Mele. La costruzione serviva pure da carcere per gli imputati di delitti gravi: al primo piano inferiore, oscuro e malsano. Quando si temette l'azione di navi da guerra britanniche in urto ovviamente coi francesi - il Cantone di Andora si munì di una batteria vera e propria, per la precipua difesa del medesimo Capo delle Mele.
VERSO I NOSTRI GIORNI
Il bisogno di fortificare il paese era sempre incalzante: si imponevano pertanto, a difendere il golfo, nuovi posti difensivi, con la collocazione di cannoni nei punti più strategicamente idonei. Questi erano affidati a Cantonieri, cioè guardie del Cantone; il servizio della Guardia Nazionale s' era fatto via via troppo gravoso, e i militari non rispondevano volentieri all'appello. Peraltro, trenta di tali Cantonieri erano sufficienti alla difesa del paese e a garantirne la tranquillità. All' addestramento provvedevano capi esperti detti Cannonieri, i quali seppero creare una vera milizia scelta, il Corpo dei Guardacoste, su cui si poteva fare pieno affidamento per scongiurare ogni pericolo. Gli addetti alla batteria furono così dodici - con un Capitano, un Tenente e un Sottotenente - e trovarono alloggio nelle sacrestie.
In seguito agli avvenimenti politici, alla carestia e all'epidemie - lo si è detto - il commercio s'era ridotto a precarie condizioni: pochi erano coloro che disponevano dei necessari fondi, e questi pochi avevano trovato più conveniente stabilirsi nelle città, dove maggiore era la mole di affari; i traffici marittimi vennero così dirottati, e il numero dei bastimenti si assottigliò notevolmente. 'Le ditte o le case fiorenti espatriarono, per stabilirsi a Genova, Marsiglia e persino Napoli, Messina e Roma. Più esigui, ripetiamo, si mostrarono i traffici tradizionali, olio, vino, granaglie ma anche acquavite, agro di limone, carrube, baccala, cotone, cuoiami, cacao, carta, caffè, droghe, fichi secchi, legumi, ferro, seta, zucchero … E il diminuito benessere portò necessariamente a malumori: il 4 marzo 1803, al proposito, fu ordinato l'arresto di alcuni scaricatori che avevano mostrato qualche insofferenza, giustificata dallo stato di disagio. Non fu possibile sedare il piccolo tumulto se non ricorrendo ad una certa diplomazia: intervennero emeriti rappresentanti, e la loro opera di intercessione valse a mutare gli umori del Vice-governatore.
Quando Napoleone fu a Milano incoronato Re d'Italia, Andora fu con la Liguria incorporata all'Impero Francese, per decisione presa dai Senatori genovesi col Doge Durazzo. Il territorio molto si attendeva dall' annessione, soprattutto contando sul rifiorire del commercio; ma gli avvenimenti successivi dovevano dimostrare l'esatto contrario. Il 13 giugno 1805, comunque, la bandiera d'oltralpe fu per la prima volta innalzata sul bastione del paese.
Nell'occasione gli Andoresi avevano indossato i loro abiti migliori: un vestito nero per gli uomini, coi bottoni dorati come nel giorno delle nozze; panciotto di seta, calzoni di panno alla francese, cappello duro, calze di seta e scarpe di pelle. Le donne avevano invece una veste di raso o di seta, un casacchino e in capo il pezzotto; grosse collane e pendenti d'oro con pietre preziose adornavano collo e orecchie. Tutto il paese si ritrovava francese, e Andora, assieme al Comune di Stellanello, apparteneva al dipartimento di Montenotte, Circondario di Porto Maurizio e Cantone di Alassio. Il paese era amministrato da un Consiglio di venti membri; gli atti pubblici venivano intestati col nome dell'Imperatore e redatti dal luglio 1806 - in lingua francese. Le dogane furono riattivate; nuove leggi andarono in vigore sullo stato civile, il porto d' armi, i contributi, le poste, la cassa-invalidi, la marina mercantile; esazioni sin allora impensate vennero introdotte, quali ad esempio il bollo sulle carte da gioco. Nacque allora il monopolio del tabacco. L'inasprimento dei tributi era necessariamente legato alle spese sempre lievitanti per gli armamenti voluti da Napoleone; anche, venne fatta in tale periodo la leva forzata dei militari, che più significava privazione della libertà per individui non abituati ad assoggettamenti. Altri oneri, ancora, erano rappresentati dalle eterne requisizioni e dai passaggi di reparti militari.
Ad Alassio, capo-cantone, era lasciata facoltà di scegliere gli alloggi per la truppa fra i comuni dipendenti, fra cui Andora - ricordiamo - e Stellanello; e la scomoda presenza al solito era anche causa di immoralità. In un documento indirizzato al Prefetto del Dipartimento di Montenotte, si legge che 'Il paese è ridotto ad una vasta caserma, dove il numero dei militari supera quello dei borghesi". E importante, peraltro, mettere in evidenza la propaganda effettuata ad Andora del procedimento messo a punto da Edward Jenner: l'inoculazione del suo vaccino sottrasse alla morte per vaiolo una quantità di vittime.
Il clero cercava di arginare tante scelleratezze, pur costretto a bruciare incenso al nuovo idolo: già l'incoronazione di Napoleone a Milano, il 26 maggio 1805, fu solennemente festeggiata con manifestazioni di giubilo, preghiere, messe cantate e processioni, mentre nelle piazze, fiorivano i falò, si organizzavano balli ed esplodevano spari di gioia.
Il 30 marzo 1811, poi, a spese del Municipio venne celebrata la nascita del Re di Roma: festosi scampanii, messe solenni e illuminazioni, con la Guardia Civica passata in rassegna. Tuttavia non si notava più l'entusiasmo delle prime occasioni: Andora rimpiangeva il benessere del passato, il suo commercio, la libertà; il paese continuava a formulare voti d'autonomia, presentando reiterate istanze al governo imperiale.
La cartina riprodotta è tratta da “Liguria Territorio e Civiltà" n. 16, Sagep editrice.
Prese allora consistenza una sensibile emigrazione a Genova, in Toscana, nel sud d'Italia, in Spagna e nella stessa Francia; non pochi solcarono l'oceano per recarsi nelle Americhe, specie in Uruguay e in California.
La "strada romana" vedeva un ridotto transito di bestie da soma e di pedoni, ma fu per essa che giunse il Pontefice Pio VII, reduce dalla Francia, il 14 febbraio 1814: sceso dalla portantina, fu accolto dalle popolazioni con manifestazioni di gioia devota. Sostò brevemente - come testimonia una lapide della chiesetta di Colla Micheri - poi proseguì alla volta di Roma. Un breve tratto della strada prese da allora il nome di "Passo del papa
Anche il servizio postale non era certo perfettamente efficiente, suscettibile com'era di ritardi, di smarrimento di lettere, con gravi conseguenze per il commercio. Spesso invece che a Corrieri la corrispondenza veniva affidata a Messaggeri, con spese non indifferenti. Il recapito dei dispacci delle autorità era invece cura dei messi comunali: all'uopo, si faceva uso di barche e staffette, spedite a Genova, Savona, Porto Maurizio, Moneglia, Diano, Albenga e dove occorresse.
Per decreto di Napoleone, la via imperiale da Parigi a Roma doveva dipanarsi lungo il litorale ligure: in questo modo i paesi poterono intercomunicare, e realizzare una maggior "pulizia" con la demolizione di pozzi e bastioni. Nel 1811 si lavorava alacremente alla nuova strada da Vado al Capo Berta. Nelle falde del Capo Mele fu necessario procedere al taglio delle rocce ricorrendo a mine. Nel 1806 - procedendo in una sorta di cronaca degli avveni- menti essenziali - fu proclamato il blocco commerciale ai danni dell'Inghilterra, che a sua volta dichiarava bloccati i porti escludenti la bandiera britannica … Gli effetti di questa congiuntura si risentirono negativamente su noli, sui cambi marittimi e sulle assicurazioni. Le merci, specie i generi coloniali, aumentarono sensibilmente di prezzo; annientato così il commercio, assunse proporzioni allarmanti il contrabbando. Navi-pirata solcavano il mare in tutte le direzioni, spiando le unita mercantili per abbordarle e catturarle se avessero contravvenuto alle leggi del blocco.
A parte le odissee dei naviganti, resto sempre aperto il problema della difesa costiera, e pertanto si rese necessario l'allestimento di nuovi posti d'avanguardia e vedetta, per avvistare tempestivamente il nemico e tenerlo a bada. Venne così costruito un sema foro il telegrafo a segnali ottici - il cui funzionamento era peraltro messo in pregiudizio dalla mancata manutenzione tecnica e amministrativa.

Pescatori intenti a rammagliare le reti
Nel 1815, finalmente, Andora passo - assieme a tutto il comprensorio da Capo Santa Croce a Capo Berta - a far parte del Regno Sardo. Poterono così riprendere le attività liguri fondamentali: quella agricola, relativa soprattutto alle fasce coltivate ad uliveto, e quella marinara, ancor più tradizionale. In primo luogo la pesca, la navigazione per il trasporto dell'olio verso Genova o Marsiglia, la pesca del corallo: a quest'ultima, in particolare, ai contributi dei corallari, si attribuisce per la maggior parte la costruzione della nuova parrocchiale di San Giovanni, dalle linee settecentesche … Si potrebbero, al proposito, ricordare le numerose fasi edilizie di trasformazione concernenti chiese, ponti, strade, e corrispondenti alle diverse utilizzazioni nel tempo, come del resto i restauri delle chiese e, in genere, dei monumenti antichi, avvenuti anche in tempi recenti; ma ciò esulerebbe dal compito che ci siamo assunti in questa modesta sintesi storica, che desidera avere soltanto il carattere di una "vulgata". Oggi, comunque, con la direttrice di fondovalle si può ricalcare all'incirca un antico percorso, dalla foce del Merula sino all'alta valle di Stellanello.
La sede municipale e ai nostri giorni alla marina. Il Comune stesso è costituito da sette borgate: Castello, Marina, Marino, Mulino Nuovo, San Pietro, Pigna - Rollo, San Giovanni. La popolazione residente è di poco più di 6.000 abitanti. L'ambiente naturale è assai ricco e rigoglioso: nella vasta pianura di Andora e più avanti, ai lati del torrente si susseguono pescheti, uliveti e lembi boschivi ampie distese di coltivazioni a frutteto, vigneto, serre, orti, con una ricchezza di prodotti che rendono ormai famoso il Comune.
I nuclei rustici di Costa, di Duomo, Rollo, Marino, Molino, Garassini e Conna, cui corrispondono, nell'adiacente valle di Cervo, quelli di Tovo, Tovetto e Villa Faraldi, caratterizzano tutta la vallata per i cospicui monumenti religiosi. Oggi vi si addensano attività redditizie e sicure come quelle turistiche, commerciali e industriali. L'immagine della valle del Merula, insomma, si presenta con aspetti multiformi, dove al perpetuarsi d'una civiltà contadina e pastorale si accompagnano i contrasti dell'attuale civiltà meccanizzata.
Certo il forte sconvolgimento turistico-residenziale ripropone un esame più attento delle compromissioni ambientali, i cui valori superstiti vanno salvati per un riequilibrio di tutte le valli ingaune, a sostegno dell'economia primaria e della struttura urbana, intensamente sollecitata dalle attività e dalle evoluzioni in atto ad Andora e nei centri vicini. L' urbanistica deve tener conto dei docu- menti storici, conciliandosi con l'economia montana dei bacini del Centa, del Merula e dell'Impero. L'attività turistica di Andora è peraltro quella che oggi s' impone per lo sviluppo considerevole, costituendo fonte di ricchezza. Il paesaggio si presta a gite ed escursioni nell'entroterra, dove suggestive località e monumenti riportano alla luce il passato; anche l'artigianato, l'agricoltura, la floricultura, l'erboristeria, la pesca, costituiscono poi attrattive per il turista.
A poca distanza da Molino Nuovo, sorge la grossa chiesa tardobarocca di San Pietro. A pochi passi da Andora si giunge alla frazione Rollo, un tempo sede del Comune, dove ancora si rileva qualche segno dell'epoca napoleonica.
A San Giovanni era l'attracco delle barche, il raduno dei mulini; a Conna, si notano i ruderi del castello e fossili di conchiglie; nel castello s'era insediato lo stato maggiore di Napoleone. A Colla Micheri parlano di storia romana i muri e le pietre. Così di seguito si potrebbe ricominciare il modesto cammino storico, che abbiamo voluto tracciare più per amore che per velleità di storici, per mezzo di continue occasioni di verifiche del passato andorese.
ANDORA, IMMAGINI DEL PASSATO
(Arrigo Molinari - Carlo Leone Forti)
Tipografia SIAG - Genova
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"ANDORA, IMMAGINI DEL PASSATO"
di Arrigo Molinari
Testi di Arrigo Molinari e Carlo Leone Forti
Tipografia SIAG - Genova

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"ANDORA, IMMAGINI DI UN SECOLO" - ARRIGO MOLINARI
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