TESI DI LAUREA - ALICE VASSALLO - Andora nel tempo

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TESI DI LAUREA - ALICE VASSALLO


"LA CENSURA NEL PERIODO FASCISTA"
(Alice Vassallo)

SLOGAN E MANIFESTI DELL'EPOCA FASCISTA
Collezione Privata Marino Vezzaro - Andora
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INTRODUZIONE

In questo elaborato si analizzeranno le varie fasi della censura fascista studiate a partire dalla lettura sistematica della storiografia più aggiornata in materia: Giorgio Fabre, Christopher Rundle e Guido Bonsaver; quindi si esaminerà come, partendo dall’eliminazione di alcuni volumi che furono ritenuti ostili o contrari al regime, Mussolini arrivò ad avere nelle proprie mani il controllo totale del mercato librario. Il primo capitolo si concentrerà sull’inizio di questo processo, ovvero sulla prima fase che andò dal 1928-29 al 1934: si vedrà come il duce si destreggiò con cautela e con un iniziale alto livello di segretezza fino a creare gli organismi necessari affinché il sistema censorio potesse funzionare autonomamente, ma in modo che facesse comunque riferimento a lui soltanto. Il secondo capitolo analizzerà il progressivo sviluppo del processo censorio dal 1934 al 1942-43. Si osserverà come la circolare numero 442/9532 del 1934 segnò la svolta in direzione di una sempre maggiore normativa sul controllo della produzione editoriale, conferendo a Mussolini e ai suoi subordinati il controllo di tutta l’editoria nazionale fino a giungere alla successiva normativa razziale e antiebraica. Infatti si noterà come il controllo editoriale andò di pari passo con la politica demografica e razziale del regime, tesa a promuovere presso l’opinione pubblica un’idea razziale comune allineata agli obiettivi politici. Il terzo capitolo, quello conclusivo, si concentrerà sui motivi che spinsero Mussolini a fare ampio uso della repressione culturale al fine di raggiungere il suo obiettivo politico: plasmare la mentalità del popolo italiano in modo che questa rispecchiasse i valori morali e l’ideologia del fascismo. Alla base di tale progetto era l’idea di creare la «razza italiana» e di difenderne la sua integrità, di garantire la salute pubblica e di dare importanza all’autorità della famiglia. Quest’ultima era infatti concepita dal fascismo come il nucleo fondamentale della società; pertanto doveva essere orientata alla sfera pubblica e allineata agli ideali del regime garantendo la continuità della «razza» attraverso le generazioni.
In modo sempre maggiore si noterà come a Mussolini interessasse controllare anche i dettagli agendo quale una sorte di editore della nazione. A questo scopo il dittatore perfezionò progressivamente il sistema della censura e parallelamente mise a punto l’idea di un fascismo come «educatore totale». Questi princìpi si espressero gradualmente e in modo sempre più concreto fino a diventare l’impulso propulsore di un progetto più ampio volto a sorvegliare l’intera produzione intellettuale e a plasmare la mentalità e la cultura italiane nella loro totalità.
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CAPITOLO 1 – LA CENSURA FASCISTA

Nel 1925 Benito Mussolini riuscì ad assumere il pieno controllo dello Stato e quindi anche del Partito nazionale fascista. Iniziò dunque a portare a compimento il processo di allineamento e di fascistizzazione della stampa cominciato due anni prima, il quale aveva già provocato una certa accondiscendenza da parte dei quotidiani nazionali nei confronti del governo fascista.[1] Il conseguente controllo della produzione libraria fu inalterabilmente intenzionale e pianificato, e con il passare del tempo si legò sempre di più all’idea mussoliniana di identità italiana. «Prima di Benito Mussolini, nessun capo di governo italiano dedicò una simile attenzione alla produzione editoriale del proprio paese. […] Divenne così una sorta di primo censore dell’editoria italiana».[2] Egli voleva avere il controllo della formazione del popolo italiano, perciò gli interessò controllare anche i dettagli della produzione editoriale. Secondo la sua concezione, infatti, egli doveva avere il controllo di tutti i libri poiché questi rappresentavano il paese. Per questo motivo perfezionò il sistema della censura e parallelamente mise a punto «l’idea di un fascismo come educatore totale».[3] Questi princìpi si espressero gradualmente e in modo sempre più concreto fino a diventare l’impulso propulsore che portò al progetto di sorvegliare l’intera produzione intellettuale e di plasmare la mentalità e la cultura nella loro totalità. La dittatura però non poteva reggersi solo su leggi repressive: per crearsi un consenso il regime attuò una progressiva campagna propagandistica con l’obiettivo di «sedurre, persuadere e ingannare gli italiani facendo loro credere che la sua ascesa al potere avesse inaugurato una nuova era di prosperità e orgoglio nazionale, senza paragone dai tempi dell’Impero romano». L’obiettivo era duplice: da un lato si voleva bersagliare l’opinione pubblica con le rappresentazioni dei successi e dei trionfi del fascismo; dall’altro si voleva assicurare che non rimanesse alcuna possibilità di poter criticare Mussolini e il regime.[4]
Questo progetto censorio-propagandistico ebbe un percorso tortuoso che richiese attenzione e tempo per essere messo in atto dal capo del fascismo e dai suoi collaboratori. Il duce «esitò a lungo prima di legare il proprio nome al controllo sulla cultura e sui libri».[5] Addirittura, in un primo momento, «gli organismi che parlavano a suo nome negavano del tutto che in Italia esistesse la censura sui libri: magari si poteva ammettere che fosse in atto la repressione politica, ma quella culturale non era concepibile».[6]


[1] Cfr. Christopher Rundle, Il vizio dell’esterofilia. Editoria e traduzioni nell’Italia fascista, Traduzione di Maurizio Ginocchi, Carocci editore, Roma, 2019, p. 21.
[2] Guido Bonsaver, Mussolini censore, Storie di letteratura, dissenso e ipocrisia, Editori Laterza, s.l., 2013, p. VII.
[3] Giorgio Fabre, Il censore e l’editore. Mussolini, i libri, Mondadori, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano, 2018, p. 12.
[4] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 23.
[5] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 11.
[6] Ibidem. Il 13 marzo 1933 il corrispondente da Washington della Stefani Speciale così riassunse il contenuto di un recente articolo di Herbert Matthews, corrispondente da Roma dello «Houston Post», che parlava della censura sui giornali: «L’affermazione delle autorità italiane che la censura non esiste è formalmente esatta. Mussolini, espertissimo in giornalismo, ha regolato il controllo delle notizie per uso dell’interno e dell’esterno con abilità superiore» (Ministero degli Affari Esterni, Archivio storico diplomatico del ministero degli Affari Esteri a Roma, Direzione Generale Affari Politici, Stati Uniti, b. 17, f. Giornali e giornalisti).

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1.1 IL CASO DEGLI AUTORI RUSSI E AMERICANI

Fino al 1932-33 se si analizza la vicenda dei libri russi e sovietici si nota come Mussolini abbia deciso di «non intervenire in campo librario con un’opera di sistematica repressione, nonché la sua volontà di non apparire come un censore».[7] Contro questi libri, che la Pubblica sicurezza italiana riteneva potessero sostenere e alimentare la propaganda del Partito comunista italiano, ossia uno dei principali partiti dell’opposizione, durante gli anni venti vennero presi diversi provvedimenti. L’episodio principale fu la circolare ai prefetti contro gli scrittori russi e americani del 20 maggio 1929 (circolare n. 18627). Di per sé questa circolare non rappresentava un ordine preciso, ma solo un suggerimento: infatti il suo scopo era quello di mettere in allerta i prefetti «sulla presenza nel mercato italiano di libri a prezzo troppo basso di autori insieme russi (Gor’kij, Gogol’, Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev) e americani (su tutti Jack London), tutti potenzialmente pericolosi».[8]
La circolare era firmata da Agostino Iraci, capo Gabinetto del ministero dell’Interno. Oggi però si è stabilito che il vero creatore fu il sottosegretario Michele Bianchi, che era stato in passato il caporedattore del «Popolo d’Italia».

Successivamente ci furono varie rimostranze tra cui quelle della Federazione degli editori. Per questo l’8 giugno 1929 Bianchi firmò un’ulteriore circolare (che questa volta venne anche resa nota sui giornali) in cui ritrattò il precedente ordine. La parte finale non consentiva fraintendimenti circa le intenzioni del regime:

[Il regime fascista] non può ignorare, con la solita indifferenza ed abulia dei regimi demo-liberali, come e quanto si influisca largamente sulla formazione spirituale delle giovani generazioni con libri estranei ed avversi alla nostra mentalità e civiltà.[9]

Venivano in ogni caso riprovate la circolazione e «la diffusione di opere, preordinata a scopi di propaganda».[10] Perciò se da un lato Bianchi aveva deciso di rimangiarsi l’imposizione precedente sui libri russi e americani, dall’altro alludeva, seppur in modo non esplicito, a un ordine che si estendeva a tutta l’editoria e alla possibilità che avesse una durata tale da interessare anche le future generazioni.



[7] Ivi, p. 66.
[8] Ivi, p. 67.
[9] Ivi, p. 83. Per l’intera circolare si veda Archivio centrale dello Stato a Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, Massime, b. 220, 5. S4/B. Traduzione e diffusione nel Regno di opere di autori stranieri.
[10] Ibidem.
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1.2 MUSSOLINI RAZZISTA

Oltre alla circolare di Bianchi dell’8 giugno 1929 un’altra premessa importante, che portò alla successiva istituzione della censura fascista, fu il discorso detto «dell’Ascensione»[11], che il duce tenne il 26 maggio 1927. Durante questo discorso Mussolini impostò le direzioni e le basi di tutta la futura politica fascista: «la difesa della razza, ancora intesa in senso demografico (alta natalità) e insieme sanitario; e la difesa dello Stato dall’antifascismo».[12] Questo discorso gettava le basi razziali e istituzionali degli anni a venire. Il duce affermava che l’Italia aveva bisogno di una serie di interventi volti a migliorare la situazione fisica del popolo, interventi che servivano a sviluppare al meglio la razza italiana.

Il giovane Mussolini si era interessato fin da giovane alle pubblicazioni relative a tematiche razziali, che in quel periodo erano state molte. Tra gli inizi del Novecento e gli anni precedenti la guerra lui stesso aveva scritto diverse volte di razzismo basandosi sulle «dichiarazioni del razzismo classico europeo (Chamberlain, Gobineau eccetera), che s’ispiravano a princìpi biologici, intrecciati con quelli “spirituali”».[13] All’interno del suo pensiero rimase preminente anche dopo la guerra la concezione della questione razziale dal punto «fisico», ossia riguardo il miglioramento della razza.

Probabilmente il punto di passaggio più rilevante e maggiormente vicino al discorso dell’Ascensione era stato un intervento tenuto in precedenza, durante il terzo congresso nazionale fascista, quello dell’Augusteo dell’8 novembre 1921. In realtà di questo intervento esistono due versioni: la prima trasmessa al «Popolo d’Italia» e pubblicata il giorno seguente; della seconda versione, che è diventata quella «ufficiale», e che è entrata a fare parte degli scritti veri e propri di Mussolini, esiste la versione stampata dal «Giornale d’Italia» sempre il giorno seguente. Questa versione finale è stata verosimilmente preparata da Mussolini in precedenza per essere distribuita alla stampa, ma venne probabilmente modificata durante il discorso. Perciò la prima versione, malgrado qualche possibile errore di trascrizione, dovrebbe essere più fedele a quello che il Duce aveva voluto comunicare al suo partito. In quell’occasione fece il discorso che poi venne riportato dal suo giornale con il titolo I postulati fascisti. Il problema della razza:

Io non intendo essere una specie di piccolo Mosè sbarbato che vi dice: Ecco le tavole della legge. Credete, giurate e camminate. Conoscete tutti quei principii che avete visti pubblicati sul Popolo d’Italia. Non sono tutti miei, ma li ho elaborati per essere resi pubblici. Incomincio col dire che il Fascismo deve provvedere al problema della razza […]. Vi dico subito che se l’Italia fosse piena di ammalati e di pazzi la grandezza sarebbe un mito. E i fascisti debbono preoccuparsi della salute della razza perché la razza è il materiale con il quale intendiamo costruire anche la storia. Noi partiamo dal concetto di Nazione. Per noi la Nazione è un fatto che non può essere né cancellato né superato, quindi noi siamo in posizione di netta antitesi contro tutti gli internazionalisti.[14]

Nell’altra versione preparata per la stampa e per così dire «definitiva» il testo era:

Io non voglio essere un Mosè sbarbato che vi dice: «Ecco le tavole della legge, giuratevi sopra!». No. Intendo dire che il fascismo si preoccupi del problema della razza; i fascisti devono preoccuparsi della salute della razza con la quale si fa la storia. Noi partiamo dal concetto di «nazione», che è per noi un fatto, né cancellabile, né superabile. Siamo quindi in antitesi contro tutti gli internazionalismi.[15]

È evidente che le differenze tra le due versioni sono notevoli. Prima di tutto inserì il riferimento ai «malati» e ai «pazzi» italiani, cioè a una vera e propria teoria eugenetica a cui si era interessato già da tempo. Inoltre reclamò come proprio questo punto del progetto politico, nel testo diffuso invece evitò di attribuirsi il merito.  
In ogni caso si sarebbe occupato degli italiani intesi come «razza», e quindi iniziando dalla loro «salute». A riguardo di ciò citava il profeta Mosè, inteso come «legislatore» ebreo per eccellenza, in senso negativo: Mussolini in questo modo affermava di non voler essere un «legislatore astratto e autoritario»[16]. Era un programma politico a tutti gli effetti, mancava solo che divenisse un testo programmatico definitivo.

Il congresso, che si concluse il 10 novembre 1921, sancì la nascita di un programma vero e proprio, che doveva essere stilato dai nuovi organismi dirigenti. Venne quindi nominata una commissione di otto membri che doveva presentare il testo del programma del Partito Nazionale Fascista al Consiglio nazionale del partito che si era riunito tra il 20 e il 22 dicembre a Firenze. Ne facevano parte: Mussolini, Dino Grandi, Cesare Maria De Vecchi, Massimo Rocca, Alberto De’ Stefani, Piero Marsich, il caporedattore del «Popolo d’Italia» Michele Bianchi (eletto segretario), Alessandro Dudan.[17]

Come primo punto del programma vennero riprese le idee precedentemente sostenute nel congresso riguardo la «razza», ma la parola qui venne sostituita con «stirpe». In particolare, dopo aver dichiarato costituito in partito politico il Partito Nazionale Fascista, venne definita l’idea di «nazione»:

La nazione non è la semplice somma degli individui viventi, né lo strumento dei partiti pei loro fini, ma un organismo comprendente la serie indefinita delle generazioni di cui i singoli sono elementi transeunti; è la sintesi suprema di tutti i valori materiali e immateriali della stirpe. Lo Stato è l’incarnazione giuridica della nazione.[18]

Nei paragrafi successivi venne trattato anche l’argomento della politica estera dell’Italia, per la quale veniva espressa una «funzione di baluardo della civiltà latina nel Mediterraneo»[19], nonché la necessità che essa:

affermi sui popoli di nazionalità diversa annessi all’Italia saldo e stabile l’imperio della sua legge.[20]

Emerge il riferimento alle «generazioni» che per Mussolini è il pilastro portante del suo pensiero. Erano loro a costituire il mezzo di trasmissione della «specie» della «razza italiana» che rappresentava l’espressione più pura del fascismo.   
Queste parole sono simboliche per ripercorrere la successiva storia della cultura fascista, e per capire i successivi ordini censori «che avrebbero avuto un’ispirazione antiborghese e antiedonistica, nell’esaltazione della rivoluzione fascista»[21]. Con queste parole Mussolini si riferiva a tutta la civiltà italiana passata e futura, che in quel momento trovava la sua rappresentazione nel fascismo.



[11] Benito Mussolini, Opera Omnia, Firenze-Roma, La Fenice-Volpe, 1951-80, vol. XXII, pp.360-390; cit. in Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 83.
[12] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 83.
[13] Giorgio Fabre, Mussolini razzista. Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita, Garzanti, Milano, 2005, p. 204.
[14] Il discorso di Mussolini sul programma fascista, PDI, 9 novembre 1921 (il giornale parlò di un «sunto»). Nello stesso numero del 9 novembre del «Popolo d’Italia» si accenna alla possibilità di pubblicare nei giorni successivi un «testo stenografico» più corretto, che però non risulta essere stampato da quel giornale. Cit. in Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 296.
[15] Il programma del fascismo esposto da Mussolini all’Augusteo. Il discorso di Mussolini, «Giornale d’Italia», 9 novembre 1921, 4ᵃ edizione. Il testo, salvo modeste varianti, è quello comparso nella prima edizione degli scritti «completi» mussoliniani (La rivoluzione fascista (23 marzo 1919 – 28 ottobre 1922), Hoepli, Milano 1934, pp. 199-206) e poi in Opera Omnia. Testo citato in Fabre, Mussolini razzista, cit., pp. 296-297.
[16] Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 298.
[17] La commissione fu annunciata sul «Popolo d’Italia» del 22 novembre 1921. Cfr. anche Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 299.
[18] «Popolo d’Italia», 27 dicembre 1921, sugli altri giornali il giorno dopo. Cit. in Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 300.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 86.
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1.3 LA SVOLTA: 1928-29

A questo periodo risale una lettera diretta a Mussolini da parte del demografo Corrado Gini datata 25 settembre 1928 e pubblicata da Francesco Cassata.[22] Alla lettera vennero allegate le bozze di un libro di Robert Kuczynski che riguardava la politica delle nascite nell’Europa occidentale. Già l’anno precedente Gini aveva procurato a Mussolini vari materiali utili per il discorso dell’Ascensione. E anche in questa circostanza confermava e appoggiava le scelte pronataliste stabilite dal capo del governo per difendere la «razza».
 
Per il Mussolini della fine del 1928 il fascismo doveva assumere addirittura la dignità di rappresentante della razza e dilatare il suo raggio d’azione, combattendo in particolare l’intera cultura tradizionalmente borghese, considerata distruttiva e vera nemica della rivoluzione fascista.[23]
 
Il primo passo effettivo della censura fascista riguardante i libri fu il divieto di pubblicazione della traduzione del libro di Erich Maria Remarque, il grande bestseller internazionale Westen nichts Neues (Niente di nuovo sul fronte occidentale) pubblicato in Germania nel 1929. Mondadori ne aveva acquistato i diritti ma si scontrò con la «contrarietà di Mussolini nei confronti di ogni opera di contenuto antimilitarista e pacifista»[24].           
La vicenda nacque dopo un corsivo del «Tevere» di Interlandi del 24-25 agosto 1929 che affermava il grande successo del libro e informava che era stato proibito nelle biblioteche militari di Vienna perché «descrive soltanto la parte brutta della guerra e può avere un’influenza demoralizzatrice sulle giovani truppe»[25]. Veniva annunciata anche la futura pubblicazione ad opera di Mondadori e veniva richiesto l’intervento degli «uomini responsabili»[26]. A questo punto Agostino Iraci, ossia il capo Gabinetto dell’Interno, richiese al prefetto di Milano di far fermare la traduzione. Non si sa per certo se l’ordine sia partito dal sottosegretario Michele Bianchi o dallo stesso Mussolini. L’editore sul momento accettò ma successivamente iniziò un tira e molla che durò per due anni e che terminò con un limitato permesso di pubblicazione con una tiratura ridotta e solo all’estero.
 
In questo momento della storia dell’Italia l’opposizione politica era stata brutalmente messa a tacere; inoltre, nel febbraio del 1929 era stato firmato il Concordato che definiva i rapporti tra Stato e Chiesa, permettendo il superamento dei loro precedenti conflitti. Infine a marzo un plebiscito aveva confermato il potere di Mussolini, che ora si trovava a essere «l’incontestato padrone dell’Italia: giovane, pieno di energie, supportato da una classe dirigente giovane come lui, scalpitante e orgogliosa di essersi imposta sul mondo intero con un nuovo progetto politico»[27]. Prendeva piede in questo modo l’idea di controllare la cultura nella sua totalità. Il regima chiedeva che venissero riferite le opinioni favorevoli al fascismo pubblicate all’estero e, viceversa, che venissero ridicolizzate le critiche al governo e che venisse denigrata la cultura “degenerata” dei paesi democratici. Inoltre, «inefficienze, incidenti, disastri naturali ed epidemie»[28] dovevano essere minimizzati il più possibile; soprattutto la cronaca nera doveva essere sottoposta a rigide limitazioni. Tuttavia, non si trattava solo di mostrare che in Italia eventi di questo tipo non accadevano: il regime rifiutava l’intrattenimento dell’opinione pubblica con storie di questo genere non solo per quanto riguarda la stampa ma anche a proposito del teatro, del cinema e della letteratura. La giustificazione per questo genere di controllo era che rappresentazioni di questo tipo danneggiassero la fibra morale del popolo italiano.[29]
 
Il 1929 fu realmente l’anno della diffusione sistematica della censura in campo culturale. A dicembre, il ministero dell’Interno promulgò la normativa definitiva riguardante i film stranieri (anche questa volta non firmò Mussolini in prima persona, ma lo fece il sottosegretario Arpinati). Come nell’editoria anche in ambito cinematografico venne quindi emanata una circolare che eliminava tutti i film stranieri di soggetto russo (in lingua originale e non). A questo punto seguì la reazione della rappresentanza diplomatica americana che intervenne a difesa dei suoi film di ambientazione russa. Il risultato fu l’emanazione di una nuova circolare che «permetteva di proiettare i film sonori con canti in lingua straniera e i film di “soggetto russo”, anche se, veniva aggiunto, questi ultimi andavano tenuti sotto una stretta vigilanza»[30].         
Di conseguenza, per effetto di questi provvedimenti, tra giugno e settembre 1929 iniziò un dibattito tra alcuni giornali riguardante l’introduzione di una censura libraria più o meno fascista o nazionalista e più o meno severa.


[22] Francesco Cassata, Il fascismo razionale. Corrado Gini fra scienza e politica, Roma, Carocci, 2006, p. 25.
[23] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 87.
[24] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 48.
[25] L’articolo intitolato Specola è discusso in Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 88.
[26] Ibidem.
[27] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 89.
[28] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 26.
[29] Ivi, pp. 26-27.
[30] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 90.
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1.4 LE PRIME CIRCOLARI

Tra la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta, la legge sulla Pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 regolava la normativa sulla sorveglianza dei libri ponendone il controllo nelle mani della polizia. Con l’inizio degli anni trenta si ebbe però una progressiva trasformazione: il controllo della censura iniziò a sottostare a sempre maggiori indicazioni provenienti dallo stesso Mussolini e dai suoi uffici, pur rimanendo ancora sotto la vigilanza della polizia.           
Ad affiancare questo lento processo venne disposta una normativa costituita da due diverse circolari: «regole di massima che il ministero dell’Interno dettò ai prefetti in periferia e che definirono l’esistenza di un sempre più stretto controllo su tutti i libri»[31].  
La prima di queste circolari fu la n. 4295 del 14 febbraio 1931, la quale venne inviata ai prefetti dalla Pubblica sicurezza e venne firmata dal capo della polizia Bocchini. Essa chiedeva di:
 
provvedere perché di tutte le pubblicazioni sequestrate come libri riviste esclusi giornali siano trasmesse a questo Ministero tre copie.[32]
 
In base a quanto avvenne in seguito si può pensare che le tre copie fossero una per la polizia, una per l’Ufficio stampa e la terza per il Gabinetto dell’Interno.         
Venne seguita dalla circolare n. 5293 del 10 marzo 1932, firmata dal sottosegretario all’Interno Leandro Arpinati, la quale dispose che:
 
d’ora innanzi tutti editori et stampatori prima di pubblicare et mettere in circolazione in libro di qualsiasi specie esso sia ne comunichino Prefettura titolo et autore.
Prefetture daranno subito analoga informazione al Ministero. Pregasi avvertire in modo tassativo interessati per quanto riferiscesi loro adempimenti et provvedere per rigorosa osservanza disposizioni stesse.
[33]
 
Quindi le prefetture avrebbero dovuto comunicare al ministero dell’Interno «subito analoga informazione» e contemporaneamente avrebbero dovuto informare immediatamente gli editori e gli stampatori circa questa nuova regola. In questo caso vennero chiesti solamente il titolo e l’autore, e non le tre copie delle pubblicazioni da distribuire alle librerie, come accadde nel 1934; perciò la verifica libraria rimase ancora in mano alla polizia ma la stessa dimensione del controllo diventò vastissima e iniziò a interessare anche i contenuti delle pubblicazioni.
 
Nel 1932 ci furono diversi divieti di circolazione emanati in maggior parte per motivi riguardanti l’ordine pubblico. Per di più si deve tenere conto che gli editori, dopo una decina di anni di fascismo, avevano oramai «allineato» le pubblicazioni alla volontà del governo.
 
In quell’anno furono interdetti libri anticlericali (per esempio la riedizione Bietti del romanzo del 1872 di Felice Guzzoni, La figlia del cardinale),[34] opere di sovversivi emigrati (Saette nell’abisso e Il ritorno di Machiavelli di Mario Mariani),[35] libri considerati antitaliani (la biografia del musicista Antonio Smareglia)[36] i libri ritenuti troppo «orrorifici» come i due romanzi di Hiller Oznekniv I sepolti nell’isola e Lo scheletro incatenato,[37] i libri sulla massoneria (Che cos’è la massoneria di Leonida),[38] oltre che, come si è visto già dopo il 1930, filocomunisti (e, per la prima volta, Il tallone di ferro di Jack London).[39] E poi i libri immorali, come la riedizione del vecchio romanzo di Ernesto Mezzabotta, La papessa Giovanna, o il più recente Borgia di Klabund (alias Alfred Henschke),[40] talvolta con qualche eccesso di zelo, come un libro sull’inversione sessuale del 1937.[41]
 
Non si sa con precisione se la censura di queste opere letterarie, non rigorosamente politiche, sia stata legata a interventi di Mussolini. È verosimile che il capo del governo abbia ordinato alla polizia di sorvegliare maggiormente la stampa, particolarmente quella popolare. In questo caso i sequestri sarebbero stati quindi compiuti dalla Pubblica sicurezza.
 
Più probabile è invece che Mussolini fosse maggiormente attivo nel settore specifico delle «storie di gangster italoamericani, in particolare a dispense, che raccontavano di “italiani” malavitosi che agivano all’estero».[42] Queste pubblicazioni rovinavano l’immagine dell’Italia e ciò portò a diversi ordini di sequestro a partire dal 9-10 giugno 1932.
 
Certo è, invece, che il duce si occupò del caso relativo all’opera di Ernest Hemingway, A Farewell to Arms (Addio alle armi), famoso romanzo che avrebbe deriso Caporetto. Il libro, pubblicato nel 1929, non venne stampato in italiano prima del 1946. Inoltre Mussolini si occupò personalmente della trattativa, che ci fu tra luglio e dicembre del 1932 con la casa di produzione americana Paramount, «che portò al divieto di proiezione in Italia del film tratto dal libro».[43] Probabilmente a causa di questa vicenda durante gli anni del fascismo non vennero più pubblicate traduzioni in italiano dell’autore.
 
In questo periodo nei gradi della polizia divenne sempre più esteso il ruolo di Leopoldo Zurlo, «che da specialista di teatro e cinema si vide dilatare i compiti assegnatigli anche alla letteratura. A partire dal 4 marzo 1933 (ma forse anche prima) il suo ufficiò si occupò soprattutto di letteratura pornografica.».[44]  
Zurlo era un prefetto molto interessato alla cultura e in modo particolare al teatro. Per anni ebbe un ruolo importante al ministero dell’Interno, proprio nel periodo in cui la polizia aveva l’ultima parola nei confronti della censura; fu successivamente assorbito nei ranghi del Sottosegretariato e poi del ministero della Cultura popolare.
 
Un esempio di un’operazione gestita esclusivamente dalla polizia fu il provvedimento che colpì un libro tedesco che trattava della figura di Cesare Battisti. La vicenda nacque da una lettera del 19 novembre 1932 inviata al «Corriere della Sera» da un tenente colonnello bolognese, che segnalò «un volume in tedesco apparso nelle librerie italiane che avrebbe infangato la memoria di Cesare Battisti».[45] La lettera, anche se non venne pubblicata, raggiunse il prefetto di Milano, che la spedì a sua volta al ministero a Roma. A questo punto ci furono varie indagini sia sul libro sia sul lettore, che portarono al divieto finale, nonostante il libro non fosse stato reperito e quini tantomeno letto.[46]
 
In questo periodo il controllo sui libri effettuato da Mussolini, che comandava anche la polizia in quanto ministro dell’Interno, era ancora sporadico; ma nel frattempo all’estero iniziava a giungere la sua fama di «controllore e di censore intellettuale»,[47] pertanto la sua immagine iniziò lentamente a cambiare. Un esempio importante è quello di Emil Ludwig, che nei Colloqui pubblicati da Mondadori nel 1932, i quali riportano una lunga intervista con il duce, accennò con precisione alla censura. L’autore provò a parlare dell’«imbavagliamento» dei giornali attuato da Mussolini: provò, perché il duce intervenne prima della pubblicazione correggendo le bozze e smorzando il verbo in «ostacolare».[48] Il capo del governo aveva pronta una giustificazione per spiegare le restrizioni ai giornali e quindi spiegò a Ludwig che «con la libertà di stampa i giornali pubblicano soltanto ciò che vogliono veder stampato le grandi industrie o le banche, le quali pagano il giornale».[49]
 
Questi incontri si svolsero tra il 23 marzo e il 4 aprile, successivamente Ludwig si recò nella sua villa in Svizzera e qui redasse il testo tedesco sulla base degli appunti che aveva preso durante le interviste che si erano svolte in italiano. Nel frattempo Mondadori raggiunse un accordo per i diritti di traduzione del libro in tredici lingue. Una volta terminato, il testo venne presentato a Mussolini nella stesura in tedesco e venne approvato pochi giorni dopo con poche modifiche, a questo punto venne quindi autorizzata la traduzione in italiano. Questa venne affidata a Tomaso Gnoli, che fece sì che Mondadori potesse presentare le bozze italiane al duce i primi di giugno. Anche questa volta le modifiche al testo furono minime, circoscritte perlopiù a espressioni impiegate nella traduzione italiana. Quando furono pronte le ventimila copie della prima edizione, Mondadori ne inviò due al duce. Nei giorni immediatamente successivi, però, «ricevette una telefonata da Gaetano Polverelli, che a quel tempo dirigeva l’Ufficio stampa del Capo del governo, il quale senza messi termini lo informò che Mussolini non aveva mai dato il beneplacito alla pubblicazione del libro e, quindi, diffidava Mondadori dal distribuirlo».[50] Tuttavia Mondadori possedeva le bozze corrette dalla mano di Mussolini, che erano «la prova più provante del beneplacito mussoliniano».[51] Nel momento in cui lo fece presente, il duce si trovò costretto a un compromesso che portò all’accordo secondo cui la prima edizione sarebbe stata stampata ma senza una particolare campagna pubblicitaria. La motivazione ufficiale di tale decisione sarebbe stata la scarsa qualità della traduzione dal tedesco. Ciò nondimeno, «il tenore di una telefonata tra Mussolini e Margherita Sarfatti suggerisce come il Duce fosse ben più preoccupato per la schiettezza di alcune sue opinioni che Ludwig aveva fedelmente riportato».[52] In quest’occasione il duce si lamentò dei Colloqui, ma disse anche «che preferiva far comprare tutte le copie del libro piuttosto che sequestrarlo».[53]
Grazie a questo episodio si capisce che Mussolini esitava ancora a proibire pubblicamente i libri prendendosene la responsabilità. In particolare nel caso di opere che lo riguardavano non voleva ancora essere considerato un censore.


[31] Ivi, p. 154.
[32] Archivio centrale dello Stato a Roma, Ministero dell’Interno, Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, Massime, b. 219, f. l. S4A. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 155.
[33] Ibidem.
[34] Il libro di Guzzoni fu sequestrato l’8 febbraio 1932 (Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 7). Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 164, n. 2.
[35] Le due opere di Mariani, edite da Sonzogno, furono sequestrate rispettivamente il 6 gennaio e l’8 febbraio 1932 (Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 7). Cit, Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 164, n. 3.
[36] Vita ed arte di Antonio Smareglia di Ariberto Smareglia, Lugano, tipografia Mazzucconi, 1932, fu sequestrato il 12 settembre 1932 (era considerato un libro straniero), Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 7; e Acs, Mi, Dgps, Dagr, F4, b. 95, f. Vita ed Arte. Il libro, scritto dal figlio, fu vietato per l’origine del musicista, slava secondo la ricostruzione contenuta nel volume: «Slavo è il musicista, nella sua anima, contrario all’irredentismo, e perciò avversato, specie a Trieste dagli irredenti». Secondo il prefetto, aveva «prodotto cattiva impressione a Pola» e per questo la Questura lo sequestrò. Smareglia avrebbe criticato anche il sistema lirico e teatrale italiano, a partire dalle case Ricordi e Sonzogno e dalla Scala di Milano. Il prefetto di Pola, per effetto del subbuglio creato dal libro, lo fece togliere dalle vetrine delle librerie, e il ministero a Roma fu drastico, decidendo la requisizione completa. Un altro figlio, Mario, scrisse due anni dopo un nuovo libro, pubblicato a Pola, per smentire le tesi del fratello e per ribadire che si trattava invece di un autentico italiano, anzi addirittura di un «milanese». Al libro di Ariberto fa esplicito riferimento Mario Smareglia, Antonio Smareglia nella storia del teatro melodrammatico italiano, Pola, Libreria Editrice Smareglia, 1934, p. 35. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 164, n. 4.
[37] I due volumi, usciti presso Cordani, furono sequestrati dalla polizia il 10 settembre 1932 (Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 8). Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 164, n. 5.
[38] Il volume, pubblicato nel 1924, fu sequestrato il 4 settembre 1932 (Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 8). Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 164, n. 6.
[39] Ai precedenti è da aggiungere Guglielmo Pannuzio, Ciò che ho visto nella Russia bolscevica, Torino, Libreria Editrice dell’Alleanza Cooperativa Torinese, 1921, vietato il 30 gennaio 1933 (Acs, Mi, Dgps, Circolari 1928-1949, b. 9). Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 165, n. 7.
[40] Si trattava di Klabund (alias Alfred Henschke), L’inversione sessuale nell’uomo e nella donna, edito da Bietti nel 1897, dissequestrato per ordine di Bocchini il 21 settembre 1931, «trattandosi opera scientifica». Asmi, Prefettura, Gabinetto, 1ᵒ versamento, b. 422, f. Volume intitolato Psicopatia sessuale di Kraft [sic] Ebing. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 165, n. 8.
[41] Fabre, Il censore e l’editore, cit., pp. 164-165.
[42] Ivi, p. 165.
[43] Le trattative, con l’intervento di Mussolini, contro A Farewell to Arms, in conseguenza del film che ne fu tratto, si trovano in Mae, AsdMae, Dgap, 1931-1943, Stati Uniti, b. 18, f. Film «A Farewell to Arms» (Cinematografia americana avente per sfondo la guerra italiana). Ivi, p. 165, n. 12.
[44] La data è indicata in un elenco di atti della Divisione di polizia passati appunto all’Ufficio teatrale. Cfr. Acs, Mi, Dgps, Dpas, Archivio generale (1940-1975), b. 222, f. Pornografia. Elenchi pubblicazioni sequestrate. Accanto a questo elenco è conservato un altro elenco di fascicoli relativi alla stampa pornografica a partire dal 1931 elaborati dall’ufficio teatrale. Di questa sua attività di controllo della stampa pornografica Zurlo stesso parla, con qualche titubanza, in Leopoldo Zurlo, Memorie inutili. La censura teatrale nel ventennio, Roma, Le edizioni dell’ateneo, 1952, pp. 118-119. A causa di quest’ultima attività fu rimproverato da Bocchini per non aver individuato la pericolosità di Mura, Sambadù, che Bocchini considerava quindi pornografico. Non si conoscono ancora bene le date e le motivazioni dei sequestri della letteratura pornografica. Ma si dispone di un lungo elenco di queste pubblicazioni precedente al 3 dicembre 1938 e conservato sempre in Acs, Mi, Dgps, Dpas, Archivio generale (1940-1975), b. 222, f. Pornografia. Elenchi pubblicazioni sequestrate. Ivi, cit., p. 166, n. 15.
[45] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 166.
[46] Acs, Mi, Dgps, Dagr, F4, b. 98, f. Vorsicht! Feind hört mit. Libro di Hans Henning Freiherr Grote. Edito Berlino. Il divieto fu posto il 30 gennaio 1933. Il libro esisteva davvero: l’autore era Hans Henning Grote, il titolo Vorsicht! Feind hört mit! Eine Geschichte der Weltkriegs und Naschkriegsspionage, edito a Berlino da Neufeld &Henius (1930). Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 166, n. 17.
[47] Ivi, p. 167.
[48] Emil Ludwig, Colloqui con Mussolini. Riproduzione delle bozze della prima edizione con le correzioni autografe del duce, Milano, Mondadori, 1950, pp. 50-51. Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p.167.
[49] Ibidem.
[50] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 44.
[51] Ibidem.
[52] Le minute della telefonata tra Mussolini e Margherita Sarfatti si possono trovare nel volume di Ugo Guspini, L’orecchio del regime. Le intercettazioni telefoniche al tempo del fascismo, Mursia, Milano, 1973, p. 102 (riferite erroneamente dal curatore al 1931, epoca in cui gli incontri con Ludwig non erano ancora avvenuti). Cfr. Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 45, n. 9. E anche Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 168.
[53] Ibidem.
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1.5 INIZIA AD AFFIORARE IL CENSORE

Prima del 1934 Mussolini, nel suo ruolo di «editore occulto»[54] ricevette e valutò personalmente un numero sempre maggiore di libri di ogni genere, che gli venivano sottoposti dagli stessi autori: «dai libri per ragazzi […], a quelli ritenuti pericolosi perché scritti da sovversivi.[55] Inoltre il duce prestava molta attenzione ai calendari, probabilmente perché erano strumenti popolari di propaganda, infatti nelle sue segreterie sono presenti diversi carteggi in proposito, con annotazioni, rifiuti e approvazioni.
 
Un caso importante, perché possediamo la copia letta e annotata da Mussolini, è relativo al libro edito da Grasset nel 1931, Le guerre est pour demain del giornalista viennese Ludwig Bauer. Inizialmente il capo del governo lesse una recensione del 1932 sull’«Italia letteraria» di Curzio Malaparte, quindi chiese che gli fosse fornita l’opera. L’articolo di Malaparte descriveva il libro di Bauer come «un testo che dispensava sarcasmo e ironia su tutti i paesi europei, i quali si avvicinavano al disastro di una futura guerra in modo cieco e scriteriato»;[56] per quanto riguarda il fascismo, invece, Malaparte scriveva che nel libro appariva «aspro e sarcastico, quando non è semplicemente maligno».[57]
Nel frattempo il 16 gennaio 1932 il libro venne denunciato da un maggiore dell’esercito, Eugenio Lagorio, che ne trattò in una lettera al giornale «Il Popolo di Roma», la quale non venne resa pubblica ma venne inviata a sua volta alla Pubblica sicurezza. Lagorio si mostrò indignato soprattutto a causa del capitolo Mussolini et son fascisme, che secondo lui rappresentava una «sintetica critica biliosa, offensiva, atrocemente offensiva non solo per il fascismo, ma anche per ogni cosa che sa di italiano».[58]
È interessante notare che, nella copia della «Collezione Mussolini», il capitolo segnalato dal maggiore è l’unico a essere stato sottolineato dal duce. Sicuramente si interessò a quel capitolo perché era fortemente accusatorio nei confronti del fascismo. Infatti, ad esempio, a p. 157 sono state sottolineate con forza le frasi che affermavano che con il fascismo «tous les cerveaux sont murés, l’Italie tout entière est transformé en un Moloch inuque»; e che «Paris reste capitale mondiale, tandis que Rome n’est qu’une ville de province aux ouvenirs glorieux»; e infine l’autore a p. 162 aveva affermato che lo Stato-Moloch fascista aveva sacrificato «le bonheur d’une grande et aimable nation».[59]
 
A questo punto, in seguito alla segnalazione, avevano agito la Pubblica sicurezza e il Gabinetto dell’Interno. Quest’ultimo propose solamente il ritiro del libro dalle vetrine; la Pubblica sicurezza, invece, inizialmente redasse la circolare di sequestro sia per la versione francese sia per la traduzione in tedesco, successivamente, però, si adeguò alla proposta del Gabinetto.             
È in questo momento che intervenne Mussolini, decidendo di far emanare un ordine di sequestro per l’edizione francese il 30 gennaio; per l’edizione tedesca invece si attese il 9 agosto. Perciò il duce decise di appoggiare le misure pensate inizialmente dalla Pubblica sicurezza, che però aveva cambiato parere in un secondo momento.
 
Questa vicenda è importante perché permette di fare notare che, almeno in questa prima fase, Mussolini non veniva sempre «consultato in anticipo dalla polizia, neanche per stabilire il da farsi con i libri che parlavano di lui».[60] In questo caso infatti è molto probabile che il vaglio del libro gli fosse stato chiesto dal Gabinetto dell’Interno, anche se egli stesso lo aveva richiesto dopo aver letto la recensione di Malaparte. Si nota, in secondo luogo, che nel meccanismo di decisione relativo al controllo dei libri potevano nascere contrasti a causa delle diverse valutazioni dei vari organismi, ma questi venivano generalmente risolti grazie al fatto che Mussolini era a capo di tutti (della sua Segreteria, della polizia, dell’Ufficio stampa e del Gabinetto dell’Interno), per cui la decisione spettava a lui.
 
Con il passare del tempo, però, il duce ritenne sempre maggiormente che era di fondamentale importanza il controllo del pensiero e delle idee condivise in Italia, ma nel 1932 gli strumenti a sua disposizione, che erano comunque in mano ai suoi diretti sottoposti, si rivelavano sempre meno adeguati. Per questo motivo iniziò a spostare sempre di più il controllo diretto dei libri nelle sue mani.
 
Alla fine del 1932 accadde un episodio di cui il protagonista fu, ancora una volta, Mussolini. A causa di questo evento il crescendo sella censura, che fino a questo momento era stato ininterrotto e regolare, raggiunse il punto di rottura. Il libro in questione, pubblicato dalla casa editrice francese Grasset, era intitolato Mussolini ed era un racconto biografico sul duce scritto dallo scrittore catanese Antonio Aniante, che era un «protetto» di Margherita Sarfatti. Anche in questo caso è sopravvissuta la copia del libro letto dal duce, che contiene numerose e marcate sottolineature. Tra i passaggi sottolineati con forza sono compresi «il riferimento (p. 28) alla sua salute, che prima o poi avrebbe potuto peggiorare, la parte (p. 93) in cui si lasciava intendere che non era vero che Mussolini proteggeva le arti, perché c’erano letterati come Ungaretti, Barilli, Cardarelli che morivano “letteralmente di fame”».[61] Inoltre era presente la tesi secondo cui il duce non sapesse il latino e il greco. Però i passi più pregiudicanti del libro erano soprattutto altri due. Il primo (p.89) era «la denuncia che l’ex segretario del Pnf Augusto Turati, poi direttore della “Stampa” fosse un “pederasta”».[62] Aniante riportava alcune voci che erano state fatte circolare dagli avversari politici di Turati, ma Mussolini non aveva intenzione di avallarle.  La seconda pagina (p. 205), evidenziata con forza, riportava «le illazioni di alcuni giornali stranieri secondo cui Mussolini aveva ucciso un bambino andando a 120 km all’ora con la sua auto e non si era fermato a soccorrerlo».[63]
 
Il capo del governo lesse il libro tra il 12 e il 13 dicembre 1932 e si arrabbiò a tal punto da non vietarlo solamente, ma giunse anche a proibire l’ingresso in Italia di tutte le edizioni Grasset. Quest’ultima decisione venne però revocata presto a causa dell’intervento dell’Ambasciata francese a Roma, «ma ebbe una risonanza spettacolare, perché, tra l’altro, sia l’interdizione che la revoca furono annunciate dalla distribuzione Hachette e quindi divennero pubbliche».[64]
Questo episodio ebbe evidentemente un ruolo di rilievo nell’accentuazione dello spirito censorio del duce. Infatti l’uscita all’estero di un libro di questo tipo dovette risultare devastante dal momento che Mussolini stava per intraprendere l’ambiziosa operazione del «patto a quattro», che si sarebbe concluso da lì a poco, con Francia, Gran Bretagna e Germania.


[54] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 174.
[55] Ibidem.
[56] Ivi, p. 175.
[57] Curzio Malaparte, Analisi cinica dell’Europa, in «L’Italia letteraria», 3 gennaio 1932. Cit. in Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 175.
[58] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 176.
[59] Acs, Biblioteca, Coll. Mussolini, n. 39. Il finito di stampare del libro era del 5 dicembre 1931 e le pagine sottolineate sono le pp. 156-163. Sul frontespizio è segnato un «Vedi p. 157». La p. 157 è all’interno del capitolo Mussolini et son fascisme (pp. 156-163). Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 176, n. 12.
[60] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 177.
[61] Ivi, p. 197.
[62] Ibidem.
[63] Ibidem.
[64] Ivi, p. 196.
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CAPITOLO 2 - LA CENSURA RAZZISTA

Per creare un sistema di censura vero e proprio partendo solamente da una generale idea «politica», che allo stesso tempo era un’idea di controllo, Mussolini impiegò poco più di cinque anni: dalla fine del 1928 all’aprile 1934.[65] Fu un processo piuttosto lento che incontrò vari ostacoli legati alla difficoltà di dare vita a un controllo ampio e complesso come quello della produzione intellettuale. Dopo che furono emersi problemi di vario tipo legati alla difficoltà di dare vita a un controllo complesso che riguardasse l’intera produzione intellettuale, il duce decise di creare un nuovo sistema che avesse una struttura vera e propria posta sotto al suo comando. Sullo sfondo di questo progetto rimase sempre l’idea di base di «protezione, in questo caso culturale, della “razza”, della “razza italiana”».[66] Lo si è visto nella proibizione di un grande successo internazionale come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, che forniva agli italiani un rischioso modello antiguerresco.
 
Si passò poi all’eliminazione, della «letteratura amena», di aborti, suicidi e vite degenerate, esempi non conformi a una vita «naturalmente italiana»; si giunse alla repressione dell’idea della donna libera, all’attacco all’omosessualità femminile; per non parlare dell’uso ripetuto in chiave razzista del pensiero di Spengler e, a conclusione del processo, della messa al bando delle relazioni interrazziali nel caso di Sambadù.[67]
 
Durante gli anni del fascismo il cambiamento più radicale relativo al sistema censorio fu una conseguenza estemporanea di un episodio che vide protagonista Mussolini. L’evento scatenante fu la pubblicazione del romanzo sentimentale Sambadù, amore negro scritto da Mura, pseudonimo di Maria Volpi Nannipieri, da parte di Rizzoli all’interno della collana «I romanzi di “Novella”». La giornalista e scrittrice Maria Volpi esordì come autrice di romanzi nel 1919, con la pubblicazione da parte della casa editrice Sonzogno del romanzo Perfidie, un libro incentrato sull’amore tra due donne, che però si conclude con un «ritorno all’ordine» e quindi con l’attesa dell’amore di un uomo. Pertanto, Mura iniziò a profilarsi come una scrittrice appartenente al genere definito come «il romanzo rosa trasgressivo».[68] La comune generalizzazione secondo cui «il romanzo rosa è un romanzo sentimentale a lieto fine» è una formulazione insufficiente, difatti Anna Banti, in un suo saggio, suggerì un altro modo per definire il genere, proponendo di prendere in considerazione le scrittrici stesse: «Consce, la più parte, della barriera che le divide dalla letteratura propriamente detta, son le prime a trascurare la loro notorietà, e a far capire, in ogni occasione, di considerarsi impresarie di un’industria redditizia e di grande smercio».[69] Perciò Banti considera il romanzo rosa come parte dell’industria di diffusione di massa della cultura e della letteratura che registrò una grande crescita nel primo dopoguerra, proprio nel periodo in cui Mura esordiva come scrittrice. Eugenia Roccella individua nel romanzo rosa un’ambiguità fondamentale che riguarda l’immagine della donna: «da una parte la riconferma nel ruolo subordinato della donna, dall’altra la trasgressività del desiderio femminile che nel romanzo rosa trova un canale privilegiato per venire alla luce».[70] Inoltre identifica due generi narrativi che si formano negli anni Venti: il primo è il rosa pedagogico, mentre il secondo è il rosa trasgressivo, che ebbe appunto Mura come scrittrice più rappresentativa.
 
Il romanzo Sambadù, amore negro era uscito a puntate già in precedenza, nell’aprile 1930, su una rivista settimanale di moda, «Lidel» con il titolo Niôminkas amore negro, ma questa pubblicazione non aveva provocato scalpore, cosa che avvenne invece in seguito alla pubblicazione in volume. La prima stesura era più breve di circa un terzo e terminava con lo «scandaloso» matrimonio tra Silvia, una giovane vedova italiana e Sambadù, un africano figlio di un capotribù, il quale - nonostante questo fatto - viene descritto come completamente italianizzato: è laureato in ingegneria a Firenze, conosce diverse lingue ed è capace di suonare vari strumenti musicali. Quattro anni più tardi, nel 1934, fu pubblicata la versione ampliata del romanzo in cui l’incompatibilità delle due razze porta all’inevitabile ritorno in Africa di Sambadù.
 
Infatti, nelle sezioni aggiunte da Mura per la pubblicazione in volume, la vita matrimoniale della coppia va in frantumi in concomitanza con la nascita del primo figlio. In quel momento la donna si rende conto del tragico errore compiuto - «il sangue del mio bambino sarà inquinato dal sangue di un’altra razza, e porterà in sé i germi selvaggi d’una tribù negra»[71] - quindi lascia il marito, il quale, anch’egli resosi conto dell’errore, decide di tornare nel suo paese natio. Il filo conduttore del libro è costituito dall’amore interrazziale e dal tema razzista che sono l’uno opposto agli ideali del regime - in quanto quest’ultimo vedeva con ostilità il matrimonio con un uomo di colore - e l’altro in accordo con esso, dato che veniva sottolineata la superiorità intellettuale della protagonista italiana. Anche il tema che riguarda il ruolo della donna all’interno della società è in opposizione alla politica fascista: Silvia è descritta infatti come una donna libera che può fare quello che vuole. Dal punto di vista della morale fascista commette diversi errori, il primo dei quali è sposarsi con uomo di colore; tuttavia il secondo è quello di decidere di lasciarlo. Infatti la sfida alla politica morale e familiare del fascismo non è tanto legata al tema razzista, ma piuttosto al fatto che non viene rispettato quello della soggezione nel matrimonio della donna all’uomo. Questo conflitto, ricorrente nella letteratura, generalmente viene risolto con la morte della donna nel peggiore dei casi, o con la sua rassegnazione nel migliore.[72] Niente ti tutto ciò accade in Sambadù. La protagonista, infatti, riesce a tenere il figlio con sé, in contrasto ai tentativi del marito, e ad allontanare per sempre il coniuge dalla sua vita.      
Secondo Bonsaver e Fabre non fu però il contenuto del romanzo a far reagire Mussolini, ma la copertina del libro. Difatti ci fu un processo di autocensura sia per quanto riguarda il testo, che era stato modificato dall’autrice, sia per il supporto iconografico. Infatti, il disegnatore Marcello Dudovich fece attenzione a sottolineare la superiorità morale e culturale della donna bianca all’interno delle varie illustrazioni; tuttavia non ci fu la stessa prudenza da parte dei grafici responsabili della creazione della copertina: l’immagine in copertina non presentava lo stereotipo del «selvaggio», ma raffigurava «la foto di un uomo di colore vestito elegantemente all’occidentale, nelle cui braccia si abbandonava sensualmente una giovane donna bianca».[73]
 
È possibile che il romanzo sia stato mostrato a Mussolini da Bocchini durante uno dei loro incontri giornalieri, di cui spesso il capo della polizia approfittava per presentargli materiale legato a questioni di censura. Della reazione del duce possediamo un resoconto dettagliato grazie a due testimonianze: una è indiretta, «le memorie del censore Leopoldo Zurlo, che ricordano un Bocchini agitato per aver fatto una brutta figura con Mussolini proprio a causa del romanzo di Mura».[74] L’altra, più autorevole, è del capo di gabinetto del ministero degli Esteri, il barone Pompeo Aloisi, che alla data del 2 aprile 1934 segnò nel suo diario:
 
Alle 11 da Mussolini. È molto contrariato da una pubblicazione, Amore nero, che ha fatto ritirare dalla circolazione. Si tratta degli amori di un Italiano con una negra. Inammissibile da parte di una nazione che vuole creare in Africa un impero.[75]
 
Il racconto di Aloisi non è perfettamente corretto a proposito della trama poiché raccontava di una donna italiana che aveva una relazione con un nero e non viceversa, come accadeva di solito nelle storie di amori coloniali.
 
Inoltre sappiamo che proprio in quel periodo Mussolini stava determinando i progetti d’invasione dell’Etiopia (attuati l’anno successivo) e quindi «non sorprende che fosse particolarmente sensibile a questioni di promiscuità tra italiani e africani».[76] Perciò il libro non solo non rispettava i ruoli maschili e femminili che erano ben definiti dalla società fascista degli anni Trenta, ma perdipiù presentava una copertina in cui l’uomo di colore possedeva l’eleganza, la forza e la capacità di conquistare una donna bianca e italiana; tutto questo rappresentava, come scrive George Talbot, «the worst nightmare of the Mediterranean Master-race».[77]  Per questo motivo, in seguito alla vicenda venne dato l’ordine alla polizia di sequestrare ogni copia del romanzo. Inoltre la conseguenza politica immediata fu che Bocchini dapprima emise il telegramma del 2 aprile contenente la richiesta di inviare al ministero tutte le opere pubblicate, ma dopo solo due ore i telegrafisti trasmisero un secondo messaggio in cui venivano disposte «le misure di prevenzione che ogni prefettura avrebbe dovuto adottare. Bocchini dispose che a partire da quel giorno ogni prefettura provvedesse a far sì che il ministero dell’Interno ricevesse due copie di ogni nuova pubblicazione».[78]   
Anche se sembra verosimile che sia stata la visione della copertina del libro di Mura a irritare Mussolini, sembra difficile che un unico simile episodio potesse essere la causa dello scatenamento di una censura razzista centralizzata e più severa rispetto a quanto avveniva in precedenza; sembra più probabile che il caso di Sambadù sia stato solamente la scintilla che fece scattare un processo complesso, già iniziato e pianificato in precedenza.
 
In ogni caso la conseguenza fu una svolta importante: il giorno dopo, il 3 aprile 1934, venne elaborata una terza circolare telegrafica firmata dallo stesso Mussolini, la quale precisava, per la prima volta, il carattere preventivo, ovvero «falsamente non preventivo»,[79] che avrebbe avuto il controllo su tutti i tipi di pubblicazioni. La regolamentazione della direttiva risultava piuttosto complessa, ma il concetto era che:
 
tutti gli editori o stampatori di qualsiasi pubblicazione o disegno, anche se di carattere periodico, dovranno prima di metterli in vendita aut comunque effettuarne diffusione, presentare tre copie di ciascuna pubblicazione alla Prefettura.[80]
 
Delle tre copie, una era designata all’ufficio stampa del capo del Governo, l’ufficio all’epoca era diretto da Galeazzo Ciano; la seconda era destinata alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza; mentre la terza doveva rimanere in prefettura ed era soggetta al vaglio del relativo ufficio stampa: «veniva infatti anche disposta la nascita, dove non esisteva, di un ufficio stampa della prefettura, composto da un consigliere e da un funzionario di polizia».[81] Le prefetture avevano la facoltà di accordare il nulla osta alla pubblicazione esaminata, ma se vi avessero trovato «elementi contrari agli ordinamenti politici sociali et economici dello Stato aut lesivi del prestigio dello Stato et della pubblica autorità aut offensivi del sentimento nazionale» (come recitava l’art. 112 del Testo Unico), dovevano riferirne «immediatamente all’ufficio stampa del Capo del Governo, restandone in attesa di disposizioni».[82] Per gli aspetti morali poteva invece decidere la prefettura in autonomia, salvo riferire la vicenda alla Direzione della Pubblica Sicurezza.
 
Non c’è dubbio che la circolare del 3 aprile 1934 istituì uno sviluppo radicale della censura libraria. L’urgenza con cui dovette essere attivata fu tra l’altro causa di una successione di problemi. Nei giorni successivi, infatti, la Direzione generale della Pubblica Sicurezza «ricevette diversi telegrammi da varie prefetture italiane in cui si confessava l’assoluta impreparazione a un tale regime di controllo dell’editoria».[83] Molte prefetture erano di fatto prive di ufficio stampa.
 
Inoltre, per quanto queste nuove direttive concedessero agli editori la piena liberà di scelta riguardo a quali libri mandare in stampa, in realtà «li resero ancora più cauti di fronte ai rischi legali e finanziari di ogni operazione editoriale».[84] Per questo motivo si diffuse la prassi di chiedere un giudizio preventivo sui testi ancora in bozze. Tuttavia questa era una soluzione che, pur essendo utile alle case editrici, «aumentava enormemente il carico degli uffici preposti alla censura in quanto era ugualmente necessario il monitoraggio di ciascuna pubblicazione al momento della sua distribuzione».[85]
 
Il nuovo sistema creava di fatto una vera e propria censura preventiva. Eppure fu questa circolare, insieme alla mancanza di una legge specifica, a permettere a vari esponenti del regime di affermare che non esistesse una censura di questo tipo in Italia. Questo era vero nella teoria ma non nella pratica. Era vero in quanto gli editori e gli stampatori potevano (anzi dovevano) far arrivare la pubblicazione fino alla fase della stampa senza vaglio preventivo. Però, in ogni caso, per metterla in vendita bisognava attendere il nulla osta delle prefetture o dell’ufficio stampa di Mussolini o trattare per ottenerlo, ma nonostante tutto ciò poteva comunque non giungere.[86]      
Nel giro di poche ore questa circolare provocò un sovvertimento radicale del processo di censura: ne conseguì lo spostamento del suo baricentro dalle mani della polizia verso l’organismo di Ciano (quindi di Mussolini). Inoltre l’intervento censorio, d’ora in poi, «avrebbe avuto caratteri ideologici marcati, vale a dire anche una sicura impronta razzista».[87]


[65] Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 256.
[66] Ivi, p. 257.
[67] Ibidem.
[68] Eugenia Roccella, La letteratura rosa, Editori Riuniti, Roma, 1998, p. 37.
[69] Anna Banti, Storia e ragioni del romanzo rosa, Paragone Letteratura, s.l., 1953, p. 30.
[70] Roccella, La letteratura rosa, cit., p. 37.
[71] Maria Volpi, Sambadù, amore negro, Rizzoli, Milano, 1934, p. 175.
[72] Cfr. Ulla Åkerström, Sambadù, amore negro di Mura. Censura fascista e sfida alla morale nell’Italia di Mussolini, Romance Studies, Vol. 36, n. 3, 2018, p. 106.
[73] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 68.
[74] Giorgio Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Silvio Zamorani editore, Torino, 1998, p. 27. Per la testimonianza riguardante Bocchini vedi Leopoldo Zurlo, Memorie inutili, cit. p. 252.
[75] Baron Aloisi, Journal (25 juillet 1932-14 juin 1936), introduzione e note di Mario Toscano, Paris, Plon, 1957, p. 185. Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 27; e in Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 69.
[76] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 70.
[77] George Talbot, Censorship in Fascist Italy, 1922-43, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2007, p. 125.
[78] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 70.
[79] Fabre, L’elenco, cit., p. 18.
[80] Ivi, p. 22.
[81] Ivi, p. 23.
[82] Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 23.
[83] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 72.
[84] Ibidem.
[85] Ibidem.
[86] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 24.
[87] Ivi, p. 27.
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2.1. L'EVOLUZIONE DELLE NORMATIVE

Durante gli anni successivi, fino al 1938, furono emesse innumerevoli leggi e circolari che precisarono l’azione di censura. Inoltre l’ufficio stampa di Mussolini cambiò veste istituzionale: dapprima, il 6 settembre 1934, sempre con Ciano al vertice, si trasformò in sottosegretariato; successivamente, il 24 giugno 1935, in ministero della Stampa e Propaganda; e infine, il 27 maggio 1937, divenne il ministero della Cultura Popolare. L’11 giugno 1936 a Ciano subentrò il sottosegretario Dino Alfieri.[88] Allo stesso tempo si assistette a una sempre maggiore concentrazione dei poteri censori nel nuovo organismo, ma ciò avvenne ogni volta con un’estrema attenzione volta a modificare il meno possibile le competenze delle prefetture.    
Con il provvedimento di legge del 24 ottobre 1935 «il ministero ebbe la possibilità di dare ordini di sequestro direttamente ai prefetti».[89] E con quello del 24 settembre 1936 «il ministero della Stampa e Propaganda ebbe il potere di nominare gli addetti stampa delle prefetture, che quindi non dipendevano più dall’Interno».[90] In entrambi i casi non vennero modificati in alcun modo i poteri delle prefetture, che mantennero perciò il diritto di ordinare sequestri in modo autonomo.
 
Il panorama censorio stava cambiando, ma ciononostante il regime voleva continuare a promuovere l’immagine di una «supervisione paternalistica che si preferiva definire “revisione”»,[91] e che era molto diversa da quella restrizione della libertà che era il significato implicito nel termine «censura». Questo atteggiamento si nota con evidenza all’interno del discorso di Ciano, che fu tenuto in Senato il 22 maggio 1936:
 
Pure il libro è oggetto di particolare attenzione da parte nostra. La legge che regolava il controllo sui libri era piuttosto vaga. Tra una maglia e l’altra della rete sfuggivano e si diffondevano pubblicazioni indesiderabili per ragioni diverse. Con la circolare del Capo del Governo in data 3 aprile 1934, e successivamente con R. decreto-legge 24 ottobre 1935, si è modificata la legislazione in materia dando facoltà al Ministero della Stampa e la Propaganda di provvedere alla revisione di tutta la pubblicazione libraria, revisione compiuta con criteri nettamente rivoluzionari. Mettiamo bene in chiaro che non si tratta di una miope e gretta censura che circoscrive la libertà dell’artista o limita l’espressione dello scienziato. Ogni pura manifestazione del pensiero è accolta, rispettata e diffusa. Ma se taluno cercasse di nascondere sotto il pretesto dell’arte un contrabbando inqualificabile, se tanto volesse, col paravento della scienza, divulgare idee che offendono l’etica nazionale, religiosa e sociale del Fascismo, allora la più assoluta intransigenza ispirerebbe l’opera del Ministero e la pubblicazione incriminata sarebbe eliminata senza pietà.[92]
 
Per quanto riguarda la normativa dettagliata, le circolari furono numerosissime e mostrarono progressivamente il carattere realmente preventivo della censura. Una di queste fu la norma firmata da Alfieri il 30 ottobre 1936 (circolare n. 308/Divisione III), «con cui il ministro suggerì ai prefetti – che dovevano dare i nulla osta – di vagliare, prima delle copie definitive, eventualmente anche le bozze».[93] Questa misura permetteva agli editori di risparmiare i costi tipografici di una tiratura che avrebbe potuto essere successivamente vietata; in cambio, il ministero di Alfieri poteva conoscere i libri che sarebbero usciti in futuro con un maggiore anticipo e prima della stampa definitiva.
 
Tutte le normative, a partire da quella del 3 aprile 1934, vennero riassunte nella circolare n. 390 emanata da Alfieri il 18 dicembre 1936, la quale era inviata ai prefetti e regolarizzava la materia relativa alla disciplina delle pubblicazioni. Veniva precisato che, con i nuovi ordini, si mirava ad:
 
avere un’esatta conoscenza di tutto quanto si stampa in Italia, non solo agli effetti della revisione, ma per poter svolgere un’azione formativa sugli editori e per la riconosciuta necessità di avere una precisa statistica della stampa italiana non periodica.[94]
 
Non bisognava solo controllare il contenuto delle pubblicazioni, ma occorreva anche «formare» gli editori secondo le intenzioni del ministero: «era la prima volta – affermava lo storico Giorgio Fabre - che, in un documento ministeriale, venivano attribuiti alla censura scopi più complessi del semplice controllo».[95]
 
È quindi evidente che per la censura libraria attuata dal fascismo lo spartiacque fu il 3 aprile 1934. Prima di quella data i sequestri venivano decisi dall’Interno e dai prefetti; dopo, le decisioni vennero trasferite progressivamente all’ufficio stampa del capo del Governo. Questo passaggio permise di introdurre la censura ideologica, che poneva particolare attenzione a nuovi temi, come quello della «dignità di razza». Questo fu possibile grazie all’impulso personale di Mussolini del 1934. Inoltre in questo modo il controllo censorio non dipendeva più dalla polizia, ma derivava direttamente dal vertice politico. Questo passaggio avvenne in modo lento e graduale in maniera tale da non provocare sconvolgimenti nei vari organismi. Dopo un anno e mezzo, alla fine del 1936, «il “controllo” diventò, in modo dichiarato, una forma attiva e completa d’intervento sugli editori, un “processo formativo”, per usare le parole di Alfieri».[96] In sostanza, a partire dal 1934, si ebbe una notevole accelerazione nel processo che permise a Mussolini di avere un controllo sempre più diretto sulla censura, che fu «pignola, attentissima, seria e anche dura»,[97] e richiese la compartecipazione di molte forze, compresi gli autori e gli editori. Questo fu il motivo del suo vastissimo successo, e questo diventò un «tema conduttore anche nella vicenda relativa agli autori “di razza ebraica”: la quale fu segnata da chiare intenzioni “totalitarie” ed ebbe quindi effetti dirompenti».[98]


[88] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 28.
[89] Fabre, L’elenco, cit., p. 29.
[90] Ibidem.
[91] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 30.
[92] Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., pp. 30-31.
[93] Fabre, L’elenco, cit., p. 29.
[94] Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 30.
[95] Fabre, L’elenco, cit., p. 30.
[96] Ivi, p. 38.
[97] Ivi, p. 39.
[98] Ibidem.
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2.2. VERSO LA PERSECUZIONE EBRAICA

Fino alla metà del 1936 non ci furono veri e propri interventi antisemiti. Ciononostante si manifestarono atti di ostilità in cui Mussolini intervenne direttamente, seppur a margine. Ad esempio, tra marzo e maggio 1936, l’Unione delle comunità israelitiche «si vide respingere la richiesta che gli studenti israeliti, per rispettare il sabato, potessero evitare di sostenere in quel giorno esami scritti».[99] Nel 1935 erano state programmate alcune agevolazioni per gli studenti ebrei, ma nel 1936 esse vennero respinte dal ministro dell’Educazione Nazionale, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, con il tacito consenso di Mussolini.       
Il 2 luglio del 1936 lo stesso De Vecchi negò poi il permesso di stampare «libri di stato speciali per le scuole elementari ebraiche»,[100] ossia testi scolastici che, a differenza degli altri, non presentassero le parti relative alla religione cattolica; e questo nonostante le spese della stampa fossero sostenute dalla stessa Unione. A partire dal 1931, e poi nuovamente nel 1934, «Mussolini in persona aveva fatto tale concessione. Nel 1936 il rifiuto fu mantenuto anche dopo un intervento presso Mussolini della Consulta rabbinica».[101]           
Alla fine del 1936 fu inoltre presa la decisione di attuare una svolta antisemita pubblica nella politica del regime e dunque anche nella pubblicistica. Mussolini, infatti, aveva deciso, per quanto riguarda il «Popolo d’Italia», di «ridurre o limitare la collaborazione di ebrei».[102]
 
Per quanto riguarda gli effetti politico-amministrativi del dibattito sugli ebrei durante queto periodo, non si hanno molte notizie. Esiste però un documento risalente al 9 giugno 1937, ossia un «”Appunto per il Duce” della dalla Direzione Generale della Stampa Italiana, quindi quasi di certo steso da Gherardo Casini», [103] che il 16 luglio 1936 era stato nominato Direttore Generale della Stampa Italiana, dapprima al ministero della Stampa e Propaganda, e successivamente, quando cambiò nome, a quello della Cultura Popolare; perciò era lui a prendere le decisioni in materia di libri e giornali. L’appunto del 9 venne scritto dopo che il direttore della rivista «Davar», Federico Ottolenghi, aveva chiesto al ministero, sul quotidiano «Regime Fascista» di Farinacci, di «sopprimere alcuni giornali ebraici perché poco fascisti».[104] Per questo motivo, Casini si pose il problema di «come “sviluppare” la “campagna antiebraica” sui giornali».[105] Quindi prese in esame le varie possibilità e sottopose ai superiori le soluzioni possibili, infine chiese indicazioni. Ne risultò il testo seguente:
 
La campagna giornalistica sul problema ebraico in Italia può continuare efficacemente, a patto però che gli sia assegnato un preciso obbiettivo.         
Se si vuole soltanto creare una particolare atmosfera intorno agli ebrei, sarà sufficiente qualche sporadico attacco del «Tevere», del «Regime Fascista» e di qualche giornale di provincia.   
Il costringere gli ebrei, attraverso una pressione morale, a ripudiare l’internazionalismo che è connaturale alla loro razza, può provocare manifestazioni appariscenti, ma tali però da non offrire ma menoma garanzia circa la futura condotta loro.       
Se si intende preparare il terreno per l’eliminazione degli ebrei da quei posti di comando che essi detengono nella vita nazionale, allora bisogna metodicamente denunciarne i metodi.
Una misura che potrebbe essere efficace, è quella proposta da FEDERICO OTTOLENGHI su «Regime Fascista» della soppressione dei seguenti giornali ebrei:
Davar – L’Italia Sionista – Israel – Israel dei ragazzi – Rassegna Mensile di Israel – La comunità Israelitica.[106]
 
Casini attendeva delle linee chiare d’azione da seguire, ma non risulta che in quel momento venne deciso alcun «preciso obbiettivo»; Mussolini ordinò di non chiudere le riviste, le quali però «morirono pochi mesi dopo, alcune per “naturale” asfissia, altre soppresse».[107]
 
Nel giugno 1937 probabilmente non era ancora stata presa una decisione politica, ma si erano delineate varie possibilità. La prima era di «mettere sotto pressione psicologica la comunità ebraica, facendo in modo che si schierasse, per intero, a favore della condanna dell’”internazionalismo che è connaturale alla loro razza”»;[108] la seconda era di lavorare «a un progetto di “eliminazione degli ebrei da quei posti di comando che essi detengono nella vita nazionale”, colpendo ad personam».[109]     
In base a ciò si riesce a capire meglio il successivo procedere della persecuzione contro gli intellettuali ebrei, «che fu uno zig zag, con cautele e improvvise accelerazioni, nei campi più disparati»,[110] comprese le improvvise esplosioni di antisemitismo, che iniziarono ad apparire sui giornali a partire dalla seconda metà del 1937.
 
Infine è da notare che il 3 febbraio 1938 apparve su «Regime Fascista» un articolo di Armando Zamboni che «chiedeva una “sana e vigilata autarchia” nel campo della letteratura»;[111] tra gli autori elencati da mettere al bando, non tutti ebrei, alcuni «diventarono sul serio oggetto di attacchi sulla stampa fascista: Gide, Huxley, Feuchtwanger, Malraux, Dos Passos».[112] Dunque gli autori ebrei non venivano ancora presentati come un obiettivo specifico.


[99] I carteggi in ACS, PCM, Gab., 1934-6, b. 1834, f. 2.5.6517. Roma. Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Richiesta per l’osservanza del sabato israelita per gli alunni che debbono sostenere in quella giornata gli esami scritti. Il presidente dell’Unione, Felice Ravenna, scrisse a Mussolini il 27/4/36. Nella lettera fece presente che, mentre nel 1935 l’Educazione Nazionale aveva comunicato di aver fatto tutto il possibile per agevolare gli studenti ebrei, con la lettera posteriore al 23 marzo aveva riferito che ogni decisione era invece in mano al duce. Dopo la lettera di Ravenna, la Presidenza del Consiglio si affidò completamente a De Vecchi, che oppose un rifiuto sostenendo che Mussolini già nel 1935 aveva «deciso che nulla dovesse mutarsi rispetto a ciò che fin allora si era fatto». Della questione discusse anche il Consiglio dell’Unione il 29/6/36. Il presidente Ravenna narrò dei rifiuti opposti da De Vecchi alle sue richieste di avere udienza. «Dolorosamente nessuno dei passi fatti hanno avuto il risultato desiderato e le risposte pervenute hanno lasciato il problema nella sua dolorosa realtà». Anche il provveditore di Firenze, interrogato, non diede risposte. AUCEI, Carte UCII, Verbali del Consiglio dal 17-7-1935 al 18-1-1939. Cit. Fabre, L’elenco, cit., p. 42, n. 2.
[100] Fabre, L’elenco, cit., p. 42.
[101] Ivi, pp. 42-43.
[102] Ivi, p. 43.
[103] Ivi, p. 48.
[104] Ibidem.
[105] Ibidem.
[106] Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 48.
[107] Fabre, L’elenco, cit., p. 48.
[108] Ivi, p. 49.
[109] Ibidem.
[110] Ibidem.
[111] Ivi, p. 51.
[112] Ibidem.
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2.3. IL "DECENNIO DELLE TRADUZIONI"

Durante i primi anni del fascismo, ma anche in quelli successivi, in Italia le case editrici si dedicarono a una fortissima attività di traduzione di libri stranieri. Questo avvenne perché in tal modo venivano soddisfatti il gusto e il mercato della narrativa popolare che interessava al pubblico italiano colto e di massa. Con «decennio delle traduzioni», secondo la famosa definizione di Pavese,[113] ci si riferisce perciò agli anni trenta del secondo dopoguerra.
 
In questi anni il mercato editoriale italiano subì un rinnovamento attraverso un processo di industrializzazione e modernizzazione che trasformò i libri in un bene di consumo. Questo processo portò anche alla rivoluzione del clima intellettuale e permise il superamento dell’idea che i libri fossero una prerogativa di alcune classi sociali e al di fuori della portata della maggior parte della popolazione; questo fattore andò di pari passo con l’aumento del tasso di alfabetizzazione: nel 1921 gli analfabeti erano il 34,9%, mentre nel 1931 la percentuale scese al 26,5%.[114]         
Tuttavia, la produzione editoriale nazionale si fondava su una concezione ancora elitaria della letteratura e su convenzioni che gli autori italiani non erano pronti a superare: il mercato editoriale italiano era dominato da un’élite e un intellettualismo ancora legati agli esercizi di stile e lontani dalle necessità e dai gusti del pubblico e pertanto incapaci di attrarre i lettori della classe media. La letteratura straniera era invece in grado di offrire generi letterari più attraenti e moderni, più vicini alla quotidianità e alle dinamiche sociali. L’editore Enrico Bemporad durante una seduta della Federazione Nazionale Fascista Industriali Editori, che si tenne a Roma il 12 giugno 1931, affermò che:
 
il contingente principale delle traduzioni è dato da letteratura amena corrente, di carattere romanzesco, poliziesco, o destinata a farci conoscere la vita e la mentalità di altri popoli. Il favore con cui sono state accolte dal pubblico queste traduzioni denota che esse rispondono ad una necessità del gusto corrente, il quale non è sufficientemente soddisfatto dalla produzione nostrana.[115]
 
Gradualmente la crescente presenza delle traduzioni sul mercato librario nazionale divenne importante per il regime, e la questione iniziò a essere vista in termini di «guerra commerciale: si parlava di importazione, esportazione e consumo di beni intellettuali nonché di una bilancia commerciale che occorreva equilibrare a favore dell’Italia»;[116] perciò la preoccupazione riguardava gli effetti che la dipendenza da prodotti librari e culturali stranieri avrebbe potuto avere sull’importanza politica e culturale dell’Italia fascista.
 
Da un lato il regime approvava la trasformazione industriale dell’editoria e della letteratura, la quale aveva l’obiettivo di incoraggiare le masse a leggere e comprare libri: i nuovi editori, come Mondadori, che contribuivano a «trasformare il settore editoriale in un’industria su vasta scala, erano visti con favore dalle autorità e godevano di un considerevole appoggio».[117] Dall’altro, il regime non poté evitare di notare quanto questa nuova «industria» dipendesse in gran parte dal numero di traduzioni pubblicate. Perciò era evidente l’elevata ricettività della cultura italiana per quanto riguardava tutto ciò che proveniva dall’estero, in opposizione all’obiettivo auspicato dal fascismo di promuovere un’esportazione del proprio patrimonio intellettuale e spirituale, «come si confaceva ad un paese potente ed influente che – agli occhi del fascismo – aveva riguadagnato il proprio ruolo di guida culturale e politica della civiltà, fondendo in un’unica epoca gloriosa i fasti passati dell’Italia romana e rinascimentale».[118]
 
Il governo fascista, salvo rare eccezioni, non era interessato ai singoli testi che venivano pubblicati e non si occupò neanche di sottoporre a una censura accurata la maggior parte delle traduzioni. D'altronde fino al 1937 non c’era ancora nessuna apparente differenza fra la letteratura italiana e quella straniera; quindi non venne stabilita alcuna particolare procedura di censura per le traduzioni. In primo luogo perché erano soggette agli stessi controlli e restrizioni di ogni altra opera pubblicata, perciò «era poco probabile che potesse venire pubblicato del materiale veramente offensivo; il vero “problema” stava nella loro quantità, e nella minaccia che si riteneva rappresentassero per gli autori italiani».[119] Difatti le traduzioni erano anche un potenziale strumento per l’esportazione e l’estensione  del prestigio della cultura italiana all’estero; diventarono però un problema di immagine, quando sembrò evidente che lo scambio commerciale fosse sbilanciato verso un’Italia eccessivamente ricettiva rispetto alle altre grandi potenze.
 
Inoltre, modernizzare l’editoria significava espandere i mercati e crearne di nuovi in modo da allargare il pubblico di lettori per includervi anche le classi popolari. Questi obiettivi incontravano l’approvazione del governo, ma nella pratica ciò voleva dire comprare i diritti dei best sellers stranieri, che erano molto più economici rispetto a quelli delle opere italiane, e successivamente impiegare il tipo di pubblicità che fino ad allora era stato utilizzato solamente per i beni di consumo, ma mai nel contesto dell’editoria. È per questo motivo che molti autori italiani iniziarono a pensare che la loro sopravvivenza economica fosse in pericolo. Le loro difficoltà di solito venivano però descritte in rapporto al superiore interesse nazionale:
 
gli autori italiani di qualità venivano messi ai margini da importazioni scadenti e, di conseguenza, i gusti dei lettori italiani venivano allontanati dalle salutari e moralmente incorrotte opere nazionali a vantaggio di una cultura straniera e decadente, con un danno che si immaginava incalcolabile inferto alla salute spirituale del pubblico italiano.[120]
 
Questo grido di allarme venne regolarmente ripreso da scrittori e intellettuali, che si trovavano a ribadire spesso la «presunta mancanza di scrupoli degli editori, colpevoli di mettere il profitto al di sopra di qualsiasi altra considerazione».[121] Il biennio 1933-34 fu un periodo particolarmente complesso per gli editori italiani e per la loro Federazione: le critiche che avevano subito già alla fine del decennio precedente si intensificarono fino a diventare una vera e propria campagna contro di loro. Il 9 ottobre 1933 uscì sul quotidiano milanese «La sera» un articolo intitolato Editori e scrittori, che si scagliava violentemente contro gli editori:
 
l’elenco delle opere pubblicate negli ultimi tempi dimostra della futilità, del provvisorio, della commercialità, del facile smercio. In gran parte sono libri stranieri, i più mal tradotti, trascurati, stampati pretenziosamente con stramba fisionomia, mal rilegati e zeppi di errori e di refusi; nonché in un altro fallimento dell’editoria italiana, ovvero il mancato connubio dei metodi di produzione industriale con la qualità letteraria: in questi ultimi anni l’editoria ha fatto sfoggio di un farsesco dilettantismo industriale, adornandosi della nobiltà dell’arte del libro come una patacca similoro per dare nell’occhio al pubblico e ciarlatanare a distesa di progetti, di idee e di imprese che rimangono lettera morta.[122]
 
È quindi evidente che la campagna contro le traduzioni stava iniziando a produrre effetti, e cominciava a creare consenso intorno all’idea che le traduzioni fossero un problema per la cultura italiana.
 
Inoltre, i successivi cambiamenti politici e ideologici e la creazione della nuova immagine di potenza coloniale che seguirono la guerra in Etiopia ebbero un ruolo importante circa la questione delle traduzioni: il clima politico divenne infatti sempre più ostile. Iniziò in questo modo la seconda campagna contro le traduzioni, che si differenziò dalla prima in quanto ora i provvedimenti vennero decisi anche sulla linea dell’antisemitismo.
 
Il problema principale, quindi, non era solo il numero di traduzioni prodotte in Italia, ma soprattutto il fatto che pochissimi libri italiani venivano tradotti all’estero: «un altro riferimento a quel deficit commerciale delle traduzioni ritenuto indegno del rinnovato prestigio internazionale dell’Italia già prima della guerra in Etiopia e che ora, dopo la creazione dell’impero, doveva apparirlo ancora di più».[123]
 
All’inizio del 1938 la situazione del libro in Italia veniva descritta, da Gherardo Casini in una relazione al ministro, in questo modo:
 
Nel settore del libro, il Ministero ha proseguito a togliere dalla circolazione le pubblicazioni italiane ed estere che recano offesa alla dignità morale e politica della Nazione o esaltano pratiche e principi contrari a quelli propugnati dalle istituzioni del regime. Ma anche qui, come nel campo giornalistico, si osserva che occasioni di intervento, per ciò che riguarda la produzione italiana, sono piuttosto rare, in quanto editori e scrittori si sono messi spontaneamente in linea con le direttive del Ministero. (…)    
Il Convegno di Firenze ha avuto il merito di far constatare che la realtà era ben lontana dall’essere così catastrofica come taluni la rappresentavano, e che la cosiddetta «crisi del libro» era un semplice luogo comune; infondati sono i risultati, infatti, i giudizi sulla pretesa decadenza del libro italiano, sulla invadenza delle opere straniere a scapito di quelle nostre, sulle traduzioni che ingombravano il mercato, sulla elevatezza dei prezzi di copertina ecc. È apparso invece all’evidenza che la produzione nazionale, riconosciuta ottima, era in aumento con un soddisfacente risultato nelle vendite – il che dimostra un maggiore interessamento del pubblico per quel che si stampa in Italia, e che le traduzioni delle opere straniere rappresentano soltanto il 7% della produzione totale, mentre l’importazione del libro estero dal 1928 ad oggi è diminuita del 75% in confronto alle cifre precedenti.
[124]
 
Come affermava Casini, nell’ultimo periodo il numero delle traduzioni in Italia era fortemente sceso. Ma nonostante ciò si riaccese il conflitto tra gli autori, tramite il Sindacato Nazionale Fascista degli Autori e Scrittori (di cui Filippo Tommaso Marinetti era il commissario, e successivamente il segretario), e gli editori. Le strategie furono diverse. Ad esempio i giornali cominciarono alcune indagini nelle librerie che «dimostravano come ai primissimi posti nelle vendite ci fossero dei libri stranieri (e diversi, tra l’altro, di autori ebrei)».[125] Questo avvalorava le tesi di Marinetti, che da tempo «sosteneva che in Italia veniva lasciato troppo spazio agli scrittori stranieri e si batteva per “italianizzare” la cultura nazionale e i libri».[126] Nella sua campagna venne anche appoggiato dal «Popolo d’Italia», ma soprattutto dal «Tevere» di Telesio Interlandi. È da notare però che quest’ultimo giornale, in un articolo intitolato La deplorata esterofilia uscito in prima pagina il 15-16 gennaio 1938, sfiorò solamente il tema degli scrittori di razza ebraica. L’autore anonimo del «Tevere» non si concentrava sugli scrittori ebrei, ma preferiva attaccare gli scrittori antifascisti, a cominciare da «Tommaso Mann».[127]
 
Alcuni cambiamenti avvennero non più solo all’interno del dibattito, ma anche sul piano concreto. Difatti il 15 gennaio, in contemporanea con l’uscita dell’articolo sulla «deplorata esterofilia», Gherardo Casini inviò un telegramma alle case editrici in cui chiese «massima sollecitudine nota completa opere straniere pubblicate dalla sua casa et quelle in progetto pubblicazione».[128] Perciò è evidente che il ministero stesse cominciando a muoversi per ottenere un censimento delle traduzioni.
Quattro giorni dopo, il 19 gennaio, il ministro dell’Educazione Nazionale Bottai domandò ai rettori delle università di indicare «il numero degli studenti ebrei di nazionalità straniera».[129] Perciò si nota come i vari ministeri si muovessero con una cera sincronia e coordinazione.
 
Intanto continuarono le discussioni riguardanti le traduzioni. La vicenda era complessa: c’era chi voleva «mettere un limite alle traduzioni, ma c’era anche chi si opponeva».[130] Si assisteva insomma a un confronto molto vario in cui ognuno cercava di difendere i propri interessi. Non è facile capire, a questo punto, in che modo e quanto la «questione ebraica» condizionasse questa controversia; perciò non è possibile capire chi «sostenendo di voler limitare le traduzioni, avesse intenzione in particolare di colpire gli autori ebrei stranieri».[131]
 
La tesi che Casini sostenne, in un discorso pubblicato dal «Giornale della libreria» nel febbraio 1938, si basava sul fatto che non fosse colpa degli editori se venivano stampati libri stranieri, dato che era il pubblico a richiederli; piuttosto, il problema era che, dopo la prima guerra mondiale, le masse stavano venendo conquistate da una cultura scadente:
 
il pacifismo, l’internazionalismo, il comunismo, la massoneria, capeggiati da ebrei o ebraizzanti, costituiscono il terreno in cui alligna questa cultura che non ha patria, che non ha ideale, che non ha tradizioni, e che anzi intende superare questi antichi confini come vieti e inanimati convenzionalismi.           
Ma la condanna inappellabile di queste odissee intellettuali di cui siamo stati fino a ieri gli spettatori, sta nel fatto che nessuna ci ha dato il capolavoro, o se si vuole essere anche meno pretenziosi, che nessuna ha creato un clima capace di imprimersi sul tempo.
Noi non crediamo affatto che sarebbe comunque giovevole chiudere le frontiere ad ogni scambio intellettuale, artistico, culturale, e ne ravvisiamo anzi tutta l’utilità e l’efficacia.    
Crediamo, invece, che sia necessario puntare risolutamente sul carattere italiano della nostra cultura, ritrovarne le lontane radici, ristabilirne la integrale supremazia.    
Non si tratta soltanto di fare il conto di quanti romanzetti francesi, di quanti narratori ebrei, di quanti commediografi ungheresi o di quanti pseudoscienziati americani sono stati tradotti in italiano. A noi preme piuttosto sapere se questo non è uno dei sintomi che si riflettono sullo stato presente della cultura italiana, e sulla sua persistente soggezione a certa cultura straniera.
[132]
 
Perciò Casini cercò di tranquillizzare gli editori affermando che non sarebbero state colpite le traduzioni, ma allo stesso tempo sottolineò l’importanza di dedicarsi alla valorizzazione di una cultura «nazionale», mentre condannò gli «ebrei o ebraizzanti» indicati come i «capi» dei movimenti come il pacifismo, l’internazionalismo, il comunismo e di tutte le correnti che avevano contribuito a creare una cultura «senza patria», «senza ideali» e anti-italiana.
 
In seguito a questa disputa sulle traduzioni non venne emanato un divieto, ma il Ministero Cultura Popolare preferì imporre un vaglio preventivo su qualsiasi nuovo libro da tradurre in italiano. Perciò il 26 marzo 1938 Alfieri emise la circolare n. 1135, che riguardava la diffusione di opere straniere in Italia. Fino ad allora gli editori «avevano dovuto solo notificare al ministero l’eventuale intenzione di tradurre le opere, sottoponendole al solito vaglio».[133] Da quel momento la norma cambiò:
 
1˚) a datare dal 1˚ aprile c.a. soltanto questo Ministero potrà autorizzare la diffusione in Italia delle traduzioni straniere;
2˚) Gli Editori possono inviare a questo Ministero direttamente o a mezzo della Prefettura, nella lingua originale, i libri che intendono tradurre in italiano;           
3˚) Questo Ministero farà conoscere all’Editore – tramite la Prefettura competente – il suo giudizio nel termine più breve;                      
4˚) È data facoltà agli Editori di presentare le opere anche in bozze nella traduzione italiana;
5˚) Sono esclusi dalla preventiva approvazione i trattati puramente scientifici (medicina-ingegneria-matematica-astronomia-botanica-zoologia) e i classici universalmente riconosciuti tali.
[134]
 
La questione delle traduzioni era diventata di fondamentale importanza al punto tale da far ritenere al ministero che le disposizioni che regolavano la pubblicazione di tutti i libri italiani non fossero più sufficienti e che occorreva perciò varare una nuova serie di provvedimenti più specifici.    
In questo caso la censura era esplicitamente preventiva in quanto la traduzione poteva essere autorizzata solo dalla Cultura Popolare, a esclusione dei «trattati puramente scientifici» e dei «classici universalmente riconosciuti tali».        
Per quanto riguarda gli effetti della normativa, quelli maggiormente evidenti furono due. Il primo fu che i sequestri si infittirono; mentre il secondo fu che il lavoro degli editori e degli stampatori fu modificato ed essi iniziarono a subire pesanti condizionamenti.[135]


[113] Si tratta di una risposta data da Pavese all’inchiesta di una rivista, «Aretusa», ed è datata 5 febbraio 1946. Si veda Cesare Pavese, La letteratura americana e altri saggi, Torino, Einaudi, 1962, in particolare p. 247. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 220, n. 4; e anche Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 16.
[114] Cfr. Francesca Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere. Italia, 1903-1943, Le Lettere, s.l., 2007, p. 65.
[115] Billiani, Culture nazionali e narrazioni straniere, cit., p. 189.
[116] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 19.
[117] Ivi, n. 7. Il rapporto personale tra Mondadori e Mussolini, invece, non era particolarmente buono, come spiega Fabre (Il censore e l’editore, cit., p. 16.): «Ma nei fatti, alla fine, [Mondadori] non entrò mai in sintonia con Mussolini, il quale, impegnato nella sua elaborazione di una cultura italiana nazionale e razziale, non poteva accettare un editore che mostrava da tempo un’impostazione culturale di ampio respiro internazionale e uno sguardo critico sulla società italiana, anche per quanto riguardava i rapporti fra uomini e donne».
[118] Ivi, p. 19.
[119] Ivi, p. 32.
[120] Ivi, p. 40.
[121] Ivi, p. 69.
[122] Editori e scrittori, in «Giornale della libreria», a. XLVI, n. 43, 28 ottobre 1933, pp. 233-4. Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 86.
[123] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 100.
[124] ASDMAE, MCP, DGSE, b. 41, f. Ufficio stampa, sf. Compiti e attribuzioni del Ministero. La relazione è senza data, ma risale ai primi mesi del 1938. Cit. Fabre, L’elenco, cit., p. 62, n. 1.
[125] Era la rubrica «Che cosa sta leggendo l’Italia», basata sulla rilevazione prima in 25 poi in 26 librerie italiane. Dal 6 febbraio 1938 essa diede solo la classifica dei libri di autori italiani. Tra gli autori di maggior successo, Mann, Cronin, Mihaly Földi, Stefan Zweig, Werfel. Cit. Fabre, L’elenco, cit., p. 63, n. 1.
[126] Fabre, L’elenco, cit., p. 63.
[127] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 63.
[128] Telegramma 4423 del 15/01/1938. Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 64, n. 2.
[129] Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 64.
[130] Fabre, L’elenco, cit., p. 65.
[131] Ivi, p. 66.
[132] Gherardo Casini, «Il libro e la cultura italiana», Il libro italiano Parte I, a. II n.2, 3 febbraio 1938. Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 67.
[133] Fabre, L’elenco, cit., p. 32.
[134] ACS, MI, DGPS, DAGR, Massime, b. S4 103 A, f. S4 B 5 «Traduzione e diffusione nel Regno di opere di autori stranieri» Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 32, n. 1; e anche Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 122.
[135] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 32.
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2.4. MONDADORI E GLI ATTACCHI ALLE COLLANE

Per capire meglio quali furono i numeri di opere tradotte in quegli anni, si può prendere come esempio la casa editrice Mondadori. Rundle ha calcolato che «negli anni venti la media delle traduzioni della Mondadori si attestava al 10,5 percento della produzione totale; ma nel 1931 compì il vero balzo, passando dal 19,2 percento dell’anno precedente al 33,8».[136] Rundle ha inoltre calcolato che anche negli anni successivi il numero delle traduzioni della Mondadori rimase estremamente alto: nel 1938 infatti la casa editrice pubblicò 91 traduzioni, che corrispondevano al 47,2 percento di tutta la produzione editoriale.[137] A un certo punto però, Mondadori si accorse che le traduzioni pubblicate dalla casa editrice erano davvero troppe, al punto che, il 18 gennaio 1938, quando scrisse al ministro della Cultura popolare Dino Alfieri, «abbassò (mentendo) il numero delle traduzioni edite da Mondadori: furbescamente non contò le collane dei “Libri gialli” e dei “Romanzi della palma”, che uscivano a ritmo periodico».[138]
 
Fu Arnoldo in persona a dare una spiegazione dei motivi per cui aveva intrapreso le pubblicazioni periodiche con i «Gialli» nel 1929, pubblicazioni che poi mantenne fino al 1942. L’occasione per spiegarlo fu il primo attacco frontale ai libri stranieri avvenuto il 13 gennaio 1938, durante una riunione al ministero di una «Commissione per la diffusione del libro», a cui era stato invitato lo stesso Mondadori. Di questa riunione non esistono testimonianze dirette, se non la già citata lettera scritta cinque giorni dopo da Arnoldo ad Alfieri, che venne inviata anche a Mussolini. In questa lettera si intravedono i temi discussi, perché Mondadori analizzò punto per punto i suoi motivi di dissenso da molte affermazioni avanzate nell’occasione:
 
1) dissentiva sul fatto che gli autori italiani fossero pagati meno di quelli stranieri, anzi era il contrario;
2) non era vero che gli editori italiani, tutti assorbiti nelle traduzioni in patria, non pensassero a esportare la letteratura italiana all’estero;       
3) non era vero che i libri stranieri avessero avuto un’influenza nefasta sulla cultura e sulla mentalità italiane.
[139]
 
Mondadori difese con orgoglio la propria attività, identificando al tempo stesso il vero nemico nell’offensiva nazionalista di Marinetti, di Interlandi e degli autori.[140] Quindi spiegò i motivi delle tante traduzioni che pubblicava:
 
L’enorme maggioranza delle opere che noi pubblichiamo in traduzione sono costituite:    
o da opere di carattere popolare, che sono fatte per divertire il pubblico, ma che nessuna influenza hanno o possono avere sugli orientamenti spirituali di questo (tengono il luogo che le sigarette occupano di fronte all’alimentazione di un individuo);          
o da opere che gli autori italiani, benché con ogni mezzo sollecitati, non scrivono, mentre il pubblico le richiede.
[141]
 
Invece di difendersi Mondadori attaccava: soprattutto gli autori italiani e la loro organizzazione ufficiale. Quindi spiegò il motivo dell’intensa pubblicazione di autori stranieri tradotti:
 
Eccellenza, fino al 1930-IX la casa Mondadori non aveva pubblicato che pochissime opere di autori stranieri, mentre aveva tenuto a battesimo quasi tutte le nuove forze della letteratura italiana e dato nuovo impulso alle vecchie. Se in quegli anni anch’essa cominciò a pubblicare delle traduzioni di opere straniere, ciò essa fece per imprescindibili, documentabili esigenze di ordine finanziario e per non disamorare del tutto il pubblico dal libro, mentre gli scrittori anziani perdevano terreno ed i giovani si mantenevano sempre più lontani da quel pubblico, che dovevano ascrivere a proprio onore di servire.[142]
 
Perciò se Mondadori aveva pubblicato così tante traduzioni era solo per conseguenza del fatto che gli autori italiani non erano riusciti a modificare i loro prodotti per venire incontro a un pubblico che con il tempo era cambiato e si era internazionalizzato. La lucida lettera di Arnoldo è interessante e onesta, ma presenta un difetto: Mondadori sbagliava obiettivo, «perché erano soprattutto Mussolini e i suoi uomini, in quel momento, a spingere per una politica nazionalista (e poi razzista) della cultura, non tanto Marinetti, che era stato una pedina».[143] In questo progetto mussoliniano, che durò a lungo, la svolta non era temporanea e non si limitava all’aspetto librario, ma interessava, in un unico progetto generale, tutta la vita nazionale.
 
Intorno al 1934, la casa editrice Mondadori pubblicava fino a 10-12 titoli la settimana, di cui 3-4 stranieri. Negli anni successivi, i titoli stranieri (compresi i «Gialli», «I romanzi della palma» e gli altri che Arnoldo tendeva a tralasciare nelle sue relazioni) si mantennero numerosi, in media circa 1-2 alla settimana. I ritmi erano spaventosi, quasi giornalistici: la collana aveva bisogno di essere continuamente alimentata da nuovi volumi in modo da mantenere ottime vendite.[144]
 
Fra la fine degli anni trenta e l’inizio degli anni quaranta, in seguito alle lunghe stagioni all’insegna dei libri angloamericani, si ebbe l’assuefazione del pubblico a una letteratura ricca di fiction, dal ritmo incalzante e sfolgorante. Quando durante la guerra i titoli inglesi e americani furono ridotti e quasi eliminati, ne risultò un danno importante per gli editori: risultò difficile sostituirli con libri dei nuovi paesi alleati, come i tedeschi e gli ungheresi. Difatti le collane come i «Gialli» e le «Palme» da anni avevano tirature elevate e la casa editrice doveva trovare il modo di mantenerle tali. Queste erano collane non solo redditizie, ma anche capaci di fornire «un profilo culturale complesso e variegato, passando dal “popolare” all’altissimo livello intellettuale, di portata internazionale, della “Medusa”».[145] Però le collane erano allo stesso tempo il punto debole della casa editrice; infatti bastava colpire allo stesso tempo alcuni libri significativi di una collana per mettere in crisi l’intero sistema. Il ministero ne era perfettamente consapevole, ed è quello che fece. Nel 1933 i gialli iniziarono a essere attaccati sui giornali, in particolar modo dal «Popolo d’Italia», il giornale della famiglia di Mussolini, che si espresse in modo particolarmente violento in vari articoli. Ad esempio nel primo attacco, nel gennaio 1933, Farinata (pseudonimo del giornalista e vecchio collaboratore del duce nello stesso giornale, Ottavio Dinale) attaccò «l’esaltazione della fantasia, l’incoraggiamento all’autolesionismo, lo stimolo a delinquere»[146] che secondo lui venivano trasmessi dai gialli. E inoltre aggiunse: «Non si può avvelenare impunemente la coscienza di un popolo, il quale lavora tranquillamente, obbedisce in silenzio e marcia sicuro verso tutte le conquiste morali e materiali cui ha diritto».[147]
 
Sui «Gialli» Mondadori rimane comunque un dato interessante, ossia che riuscirono a superare più o meno indenni gli attacchi giornalistici. Infatti le due collane, normale ed economica (nata nel 1933), continuarono a creare discussioni sui giornali per tutti gli anni successivi fino alla chiusura, ma continuarono anche a vendere milioni di copie: «gli “economici” più di cinque, e i gialli veri e propri più di dieci».[148] I problemi più seri iniziarono a subentrare nel 1938, quando arrivò il primo avvertimento per un libro di Todd Downing: gli omicidi che caratterizzavano quel genere di produzione non erano ben visti dal regime, quindi la casa editrice dovette fare sempre molta attenzione alle opere che decideva di pubblicare, nonostante queste si vendessero bene. Successivamente, con la guerra, le regole cambiarono ancora: furono pressoché eliminati gli autori anglosassoni a favore dei tedeschi e degli italiani.  
Alla fine fu lo stesso Mondadori che preferì rinunciare ai «Gialli» l’8 settembre 1941, dopo che, tramite varie circolari del ministero, venne chiesto alle case editrici di controllare tutti i polizieschi in commercio per eliminare quelli «nocivi alla gioventù».[148] Perciò Mondadori, piuttosto che cimentarsi in una «dolorosa “autobonifica”»,[150] valutò che fosse meglio eliminare le due collane incriminate, «I libri gialli» e i «Gialli economici». Questa decisione, invece che essere accolta con sollievo, ebbe come conseguenza una serie di pesanti ritorsioni da parte del ministero: «dall’obbligo, per ciascun editore, di non pubblicare più di un giallo al mese (che tarpava qualsiasi progetto della Mondadori di pubblicare libri gialli in altre collane, a prezzo più alto) fino alla proibizione di vari titoli polizieschi presentati in questo periodo».[151]
 
Una collana non periodica, la cui ideazione fu approssimativamente contemporanea a quella dei «Gialli», è quella dei «Romanzi della guerra». Alla base della sua creazione c’era l’idea di raccogliere in un gruppo unico di libri un genere abbastanza vario che aveva avuto un grande successo nella repubblica di Weimar a partire dal 1928 e successivamente in tutto il mondo: i «Kriegsromane», che «raccontavano la Prima guerra mondiale dalla parte dei soldati, con i loro drammi, le violenze, il desiderio di pace che piano piano cominciò a insinuarsi in molti di loro».[152] Al primo diniego per Remarque, Arnoldo reagì insistendo per mesi, così come fece anche al secondo rifiuto a Remarque per La via del ritorno, ma con lo stesso risultato: entrambi i libri non poterono essere pubblicati in Italia ma solo all’estero. Mondadori le tentò tutte per cercare di far sopravvivere la collana, «compreso l’inserimento di titoli di autori italiani che avrebbero dovuto riequilibrare i tedeschi, tanto detestati (come nemici nella Prima guerra mondiale) quanto di successo».[153] Ma non ci fu nulla da fare. Dopo il sequestro di Caterina va in Guerra di Adrienne Thomas, avvenuto nel marzo del 1932, Arnoldo decise di chiudere la collana.
 
Per quanto riguarda la collana periodica dei «Romanzi della palma» e quella non periodica della «Medusa», cominciarono a interessare i censori abbastanza presto. La prima nacque nel maggio 1932 e fu presentata a Mussolini qualche mese dopo, il 30 novembre come: «Buone traduzioni italiane di moderni romanzi stranieri».[154] Il primo sequestro di due titoli avvenne il 9 settembre 1933, ossia meno di un anno dopo;[155] e successivamente ci furono altri attacchi. Infatti dopo la chiusura dei «Romanzi della guerra», erano i «Romanzi della palma» a essere troppo disinvolti per l’ideologia fascista, anche se sotto un’altra prospettiva.
 
La «Medusa» invece nacque nel marzo 1933 e il primo libro che si scontrò con la censura fu Sanctuary di Faulkner, che non venne autorizzato nell’aprile 1935. Contro la collana furono eseguiti in particolare tre sequestri in cui è accertato l’intervento di Mussolini stesso. Durante il primo, il 19 gennaio 1938, furono sequestrate tre opere di Arnold Zweig, autore ebreo e pacifista; successivamente, il 21 maggio 1938, fu colpito l’Almanacco che faceva riferimento anche ai volumi futuri della collana; infine, il 23 giugno 1938, ci fu una violenta requisizione di volumi «Medusa»: in questo caso gli autori colpiti furono Heinrich e Thomas Mann, Lion Feuchtwanger, Jacob Wassermann e ancora Arnold Zweig.[156]
Prendere di mira una determinata collana comportava diverse conseguenze:
 
spezzarne la continuità in edicola e in libreria e dunque l’abitudine dei lettori; rendere problematica l’intera produzione (e cioè i volumi successivi); allertare le prefetture e la polizia, incoraggiare ad avere un occhio più attento verso quei libri; portare silenziosamente in discussione un intero progetto editoriale (in cui rientravano per esempio le traduzioni).[157]
 
Quest’ultimo, che era il cuore dell’attività della casa editrice, ne uscì profondamente indebolito dato che era basato su programmazioni spesso di lungo periodo e su contratti già conclusi.  Il sequestro fondamentale per la storia della censura e della Mondadori fu quello del 23 giugno 1938 contro la «Medusa», il quale riguardava tutti autori ebrei, o supposti tali come Thomas Mann; esso «fu all’origine (o fu una delle origini) della frase che Mussolini a luglio disse al genero Galeazzo Ciano, cioè che avrebbe fatto un “falò degli scritti ebraici, massoneggianti, francofili” (e Arnoldo era ritenuto massone)».[158]
 
La cosa più interessante è la coincidenza con altre date; infatti il terribile colpo alla «Medusa» fu inferto contemporaneamente alla realizzazione concreta della campagna razziale: «oggi sappiamo con precisione – ha scritto lo storico Giorgio Fabre - che il 23 e il 24 giugno furono i giorni in cui prese concretamente avvio, dietro le quinte della burocrazia, la persecuzione degli ebrei».[159] Il 24 giugno 1938 l’antropologo Guido Landra si presentò da Mussolini per ricevere indicazioni per la stesura del futuro «Manifesto della razza»; inoltre probabilmente dal 23 il sottosegretario e il capo Gabinetto della Presidenza del Consiglio ricevettero ordine dal duce di inoltrare ai ministeri delle comunicazioni riservate. Perciò i due funzionari iniziarono a impartire istruzioni segrete inerenti a quella che sarebbe stata la futura campagna antiebraica.[160]


[136] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 290. Per i dati si veda Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., pp. 191-192.
[137] Per i dati vedere Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., pp. 191-192.
[138] Acs, Spd, Co, b. 1177, f. 509.568.  Milano. Casa Editrice Mondadori. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., pp. 290-292, n. 1.
[139] Ibidem.
[140] La deplorata esterofilia, in «Il Tevere», 15-16 gennaio 1938.
[141] Acs, Spd, Co, b. 1177, f. 509.568. Milano. Casa Editrice Mondadori. Cit. Fabre, Il censore e l’editore, cit., pp. 290-292, n. 1.
[142] Ibidem.
[143] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 293.
[144] Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 301.
[145] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 302.
[146] Farinata, Schermo giallo, in «Il Popolo d’Italia», 8 gennaio 1933. Cit. in Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 303.
[147] Ibidem.
[148] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 304.
[149] Ivi, p. 305.
[150] Ibidem.
[151] Ibidem.
[152] Ibidem.
[153] Ivi, p. 306.
[154] Ibidem.
[155] Vennero sequestrati Storia di una notte di Joe Lederer e Bohème ‘900 di Roland Dorgelès.
[156] Cfr. Fabre, Il censore e l’editore, cit., pp. 306-307.
[157] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 307.
[158] Ibidem.
[159] Ibidem.
[160] Ivi, p. 308.
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2.5. L'ELIMINAZIONE DEGLI SCRITTORI EBREI

L’ordine che portò all’eliminazione degli scrittori ebrei dal panorama culturale fascista risale all’aprile 1938 ed è riportato in una serie di appunti ministeriali dei giorni 6, 7 e 8. In quell’occasione venne inoltre affrontata e approvata l’idea di creare un elenco di proscrizione.[161] Il 6 aprile fu redatto un «Appunto per S.E. il Ministro»,[162] senza firma. Si trattava di una prima stesura e la parte finale risulta cancellata, con vari segni di matita (qui è indicata tra due asterischi).
 
Per eliminare dalla circolazione gli scrittori ebrei, ebraizzanti, o comunque di tendenze decadenti, occorre impartire ai direttori di giornali e riviste, e agli editori un ordine preciso.  
Fino ad ora si è dato soltanto qualche generico avvertimento e qualche divieto in riferimento a casi specifici.  
**I divieti però non sono costruttivi. Occorre anche aprire la strada ad elementi di spirito e mentalità fascista, non disposti a compromessi, capaci di lavorare nel nostro clima.  
Per questo è necessario alimentare qualche rivista di giovani, anche non politica.
Però occorre scegliere gli elementi, e non raccogliere quelli che si sono seduti ai margini ai primi passi.**[163]
 
A stendere la nota era stato quasi certamente Casini (si noti l’uso della parola «ebraizzanti» come nella sua relazione del 3 febbraio). Secondo l’appunto non si trattava più di colpire alcune persone, ma tutto un settore della produzione intellettuale. L’8 aprile vennero scritti due ulteriori testi ricavati dal precedente, entrambi erano un «Appunto per S.E. il Ministro». Uno dei due venne sottoposto a Mussolini da Alfieri e diceva:
 
Per eliminare dalla circolazione gli **scrittori ebrei**, ebraizzanti, o comunque di tendenze decadenti, occorre impartire ai direttori di **giornali e riviste, e agli editori un ordine perentorio e preciso.**
Si potrebbe anche compilare una lista di autori da evitare. È opportuno? E di tali scrittori si deve chiedere la cessazione di ogni attività pubblicistica, o soltanto la eliminazione del nome?[164]
 
Tra gli asterischi sono riportate le parti che Mussolini approvò con la sua sigla puntata a margine. Il «sì» del duce si riferiva quindi alla proposta di impartire ordini ai direttori di giornali e agli editori affinché colpissero i giornalisti ebrei. Stendere una lista di proscrizione avrebbe dato agli «ordini da impartire» un carattere definitivo e le eliminazioni non sarebbero più state sporadiche e casuali come fino a quel momento.[165]
 
Per quanto riguarda la lista (o per meglio dire le liste, dato che finora ne sono state ritrovate tre),[166] essa stava davvero per essere compilata e riguardava i «pubblicisti», secondo i desideri del duce. Perciò la prima lista fu ricavata estraendo gli «aventi nomi ebrei»[167] dall’elenco degli iscritti all’albo dei giornalisti (giornalisti, pubblicisti e praticanti). L’elenco che venne preso in considerazione in partenza fu «quello dell’albo professionale chiuso il 28 febbraio 1938 e pubblicato sull’organo di categoria»;[168] questo venne successivamente incrociato con l’elenco più importante dei cognomi ebraici che in quel momento circolava in Italia, ovvero l’elenco dei Cognomi di ebrei in Italia di Samuel Schaerf (Firenze, edizioni Israel), pubblicato nel 1925. Il risultato fu un elenco di 249 presunti ebrei.[169] La seconda lista fu creata in data non precisata aggiungendo «altri 43 giornalisti “presunti ebrei” che non avevano nomi ebraici»;[170] ma furono anche aggiunti «63 “pubblicisti” (terza lista) che non erano iscritti all’albo ma scrivevano sui giornali (soprattutto nella stampa tecnica), e che pure a qualcuno “risultavano” ebrei (per esempio, c’erano Carlo Carrà e Andrea De Chirico, alias Alberto Savinio)».[171] Il risultato fu quindi un triplice elenco di 355 nomi in totale.
Tentando di datare la seconda e la terza lista, Fabre evidenzia come sia probabile che entrambe risalgano a «un giorno imprecisato prima della fine del giugno 1938»,[172] dato che in nessuna delle liste risulta il nome di Alberto Moravia, che si iscrisse all’albo come «pubblicista» tra il 1° e il 30 giugno 1938.[173]


[161] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 75.
[162] ACS, MCP, Gab., b. 12, f. Stampa italiana. Scrittori Ebrei. Cit. in Fabre, L’elenco, cit., pp. 75-77, n. 1.
[163] Ibidem.
[164] Ibidem.
[165] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 77.
[166] Tutte e tre sono state conservate in ACS, MCP, Gab., b. 12, f. Razzismo. Appunti vari. Vedi Fabre, L’elenco, cit., p. 79, n. 2.
[167] Ibidem.
[168] L’albo al 28/2/38 fu pubblicato su BSNFG, a. XI n. 2, febbraio 1938. Cit. Fabre, L’elenco, cit., p. 79, n. 3.
[169] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 79.
[170] Fabre, L’elenco, cit., p. 79.
[171] Ibidem.
[172] Ivi, p. 80.
[173] L’iscrizione di Moravia compare tra le «Variazioni deliberate dal 1° al 30 giugno» dal Sindacato dei giornalisti di Roma. Vedi BSNFG, a. XI. 6-7, giugno-luglio 1938, p. 6. Cit. Fabre, L’elenco, cit., p. 80, n. 1.
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2.6. BONIFICA LETTERARIA

Il 1938 determinò un importante cambiamento nel panorama culturale e politico italiano. Dapprima, a giugno, il presidente della Federazione fascista dei librai stese una circolare che prevedeva la rimozione dalle vetrine di qualsiasi opera scritta da ebrei italiani e stranieri; ad agosto invece prese l’iniziativa il ministero dell’Educazione nazionale, retto da Bottai, il quale decise di far ritirare dal mercato tutti i testi scolastici a opera o a cura di autori ebrei.[174] Successivamente venne annunciata l’istituzione di una Commissione della bonifica libraria patrocinata dal ministero della Cultura popolare e aperta ai rappresentanti del mondo editoriale. Il 13 settembre, durante la prima riunione, si stabilì l’arco cronologico cui riferirsi per la cernita dei libri:
 
[si decise] di rivedere la produzione libraria dalla guerra in poi per togliere dalla circolazione, oltre a quello che può essere politicamente in contrasto con le direttive del regime, anche tutto ciò che sia antitaliano, antirazzista, immorale e depressivo.[175]
 
Il 12 dicembre si tenne un’altra riunione, il ci resoconto fu trasmesso da un comunicato dell’Agenzia Stefani del 16 dicembre:
 
In base alla decisione della Commissione sarà compilato un elenco di tutte quelle opere che non sono degne di appartenere al patrimonio spirituale dell’Italia perché ne tradiscono il grande retaggio ideale che il Fascismo difende e rinnova potentemente. I libri così indicati dovranno essere tolti dal commercio sotto qualsiasi forma esso avvenga.[176]
 
Perciò lo scopo della Commissione era quello di «eliminare o impedire la messa in circolazione di tutta quella merce italiana e straniera che troppo decisamene contrasta con l’etica e con i fondamentali principi del Fascismo»[177] per adeguare la cultura italiana «all’attuale clima politico e morale dell’Italia fascista».[178] L’obiettivo di Alfieri era quello di «fissare i criteri precisi e studiare i mezzi più rapidi e più idonei per addivenire ad una revisione totale della produzione libraria italiana e di quella tradotta in italiano»[179] necessaria soprattutto «in relazione alle superiori direttive di carattere razziale»[180] che il regime intendeva seguire. In questo stadio iniziale l’obiettivo sembrava quello di verificare in modo generale tutti i libri editi in Italia, seguendo le nuove leggi razziali ma senza limitarsi alle sole opere ebraiche. Successivamente però, una volta iniziati i lavori, la commissione assunse «un tono più marcatamente antisemita e la questione delle traduzioni apparve passare in secondo piano»;[181] se ne evince quindi come il centro degli interessi della commissione fosse la questione politica e razziale.
 
Le riunioni dei singoli comitati della commissione continuarono a susseguirsi nei mesi successivi senza produrre grandi risultati. Per la letteratura fu nominato Alessandro Pavolini, che nel giro di pochi mesi (nell’ottobre del 1939) sarebbe diventato il nuovo ministro della Cultura Popolare, e Filippo Tommaso Marinetti, capo del movimento futurista e in quel momento segretario del Sindacato autori e scrittori.[182] Anche l’autobonifica delle case editrici procedette a rilento e fu un’epurazione che avvenne senza l’intervento del governo, il quale non attuò provvedimenti polizieschi. Il risultato, comunque, fu che molte case editrici, negli anni successivi, revisionarono il proprio catalogo eliminando titoli di opere scritte o curate da ebrei.[183] In realtà ci furono anche diversi casi in cui le case editrici tentarono di raggirare le direttive razziali sostituendo i nomi degli autori o dei curatori ebrei con nomi di autori ariani.[184] Nella stragrande maggioranza dei casi, però, i testi vennero eliminati dal mercato.
 
I lavori della Commissione si protrassero fino al 1940: ad aprile Pavolini considerò esaurito il compito della Commissione e il 25 aprile lo annunciò durante il suo discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni in occasione del dibattito sul bilancio del ministero e nel mentre si congratulò con gli editori per la solerzia con cui avevano eseguito i lavori della Commissione:
 
L’opera di bonifica libraria può dirsi terminata ed è interessante notare che su 1472 opere segnalate dalla Commissione, ben 913 sono state ritirate per iniziativa degli stessi editori pienamente consci dell’opportunità del provvedimento. Così soltanto 425 opere sono state sequestrate; 40 hanno avuto divieto di circolazione; 45 divieto di ristampa; 74 divieto di vendita su bancarelle e 4 hanno ottenuto il permesso di ristampa previe modificazioni.[185]
 
I primi anni Quaranta videro un ulteriore inasprimento della situazione. In autunno il ministero iniziò ad attuare dei provvedimenti in modo da limitare la pubblicazione delle «opere cosiddette di “fantasia” e di amena letteratura».[186] Oltre a ciò ci fu anche un inasprimento del controllo delle traduzioni, che portò all’imposizione di un numero limite di traduzioni che potevano essere pubblicate: nel 1942 il ministero introdusse una quota che prevedeva che «le traduzioni di libri stranieri rispetto ai libri italiani pubblicati da ciascun editore debbono essere contenute nella quota del 25%».[187]
 
Le limitazioni non furono attuate solo per le traduzioni, ma riguardarono anche altri settori. A febbraio del 1941, con la circolare n. 5510, il ministero informò esplicitamente gli editori che serviva l’autorizzazione preventiva per i «romanzi a dispensa». Poi a luglio la circolare n. 7743 vietò la pubblicazione dei libri gialli sia sotto forma di periodici sia di dispense. A ottobre fu introdotta un’ulteriore limitazione: avrebbero potuto continuare a pubblicare narrativa poliziesca solo le case editrici che già lo facevano, ma solo un titolo al mese e con un prezzo minimo di cinque lire.[188] Queste misure sembravano mirate non tanto a rimuovere completamente il genere poliziesco dal mercato, ma piuttosto a «renderlo inaccessibile alle masse vulnerabili».[189] Perciò, questi provvedimenti sembravano essere stati attuati per «tutelare il grande pubblico nello stesso modo in cui i regime aveva sempre pesantemente censurato la cronaca nera sulla stampa, nella convinzione che l’uomo della strada doveva essere tenuto al riparo dagli effetti demoralizzanti delle storie criminali e di perversione».[190]


[174] Cfr. Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 129.
[175] Agenzia Stefani, Generale, Roma 12 novembre 1938, a. XVII, n. 34 (Biblioteca ACS). Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 141.
[176] Agenzia Stefani, Generale, Roma 16 novembre 1938, a. XVII n. 13 (Biblioteca ACS). Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 207.
[177] Fabre, L’elenco, cit., p. 86.
[178] Ivi, p. 129.
[179] Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 139.
[180] Ibidem.
[181] Ivi, p. 140.
[182] Cfr. Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 131.
[183] Ibidem.
[184] Ibidem.
[185] Cit. in Rundle, IL vizio dell’esterofilia, cit., p. 145.
[186] Ivi, p. 152.
[187] Ivi, p. 162.
[188] Ivi, pp. 155-156.
[189] Ivi, p. 155.
[190] Ibidem.
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2.7. NASCE L'ELENCO

Durante il periodo fascista, la radicalità dell’intervento razzista, sia nel campo della scuola, sia in generale in tutta la cultura, ebbe un carattere totalitario e conseguenze durature per tutta la società. In tal senso, la persecuzione in ambito culturale rappresenta un nodo centrale della politica antisemita attuata dal fascismo. In questo contesto, le azioni volte a eliminare gli ebrei dalla produzione e dalla diffusione editoriale, tramite il processo di censura libraria e di allontanamento da giornali e case editrici, ebbero una notevole importanza. L’eliminazione dal panorama culturale italiano della produzione libraria degli autori «di razza ebraica» fu una «scelta politica di stato»,[191] direttamente riconducibile a Mussolini e da lui ininterrottamente sorvegliata nelle applicazioni concrete.
 
Il fatto che la lista italiana comparve solo nel marzo del 1942 fa pensare che sia stata la spinta nazista a determinare una maggiore fermezza al ministero della Cultura popolare, colpevole di aver fatto pressione alle case editrici ma senza una propria azione diretta, a partire dal 1938.[192] Difatti, nella Germania nazista la questione ebraica nell’editoria era stata elaborata in modo definitivo nell’aprile 1940, con il «Totalverbot», cioè «il divieto di pubblicazione e circolazione di qualsiasi opera scritta da un ebreo (con l’unica eccezione di alcune, insostituibili, opere scientifiche).»[193] Dopo la conquista della Francia, Hans von Mackensen, l’ambasciatore tedesco a Roma, cominciò a fare pressioni su Pavolini affinché aumentasse la collaborazione in materia di censura dell’asse Roma-Berlino. Si giunse in questo modo nel 1941 alla creazione, da parte dei nazisti, della propria lista di «autori non graditi» per ragioni ideologiche in Germania. A questo si aggiunse la richiesta tedesca al governo fascista di fornire, a sua volta, il corrispondente elenco italiano.[194] Dalla dettagliata ricostruzione di Fabre si deduce che il documento italiano fu il risultato della fusione di diverse liste create in precedenza:
 
dal settembre 1938 venne raccolto l’elenco di autori ebrei non scolastici provenienti dal censimento della 19230 e dalle successive verifiche: non erano ebrei identificati «razzialmente» a termine di legge, ma individuati come tali dagli editori e di conseguenza tali considerati dalla DG Stampa italiana; poi, via via, furono aggiunti altri nomi. Prima del maggio 1939, fu aggiunta una lista di antifascisti e anch’essa fu perfezionata. Prima del luglio 1939, fu inserita la lista Barduzzi, che rimase invece invariata.[195]
 
Cinque mesi dopo la richiesta nazista, il 23 marzo 1942, la lista degli Autori non graditi in Italia fu inviata dal ministero della Cultura Popolare alle prefetture tramite una circolare, protocollata con il n. 1485. Il testo enunciava:
 
Per opportuna norma e con preghiera di volerlo comunicare, in via riservata, alle principali Case Editrici di codesta Provincia, si trasmette l’unito elenco degli autori le cui opere non sono gradite in Italia.[196]
 
L’elenco, che veniva allegato in multicopia, era costituito da 29 fogli e conteneva circa 900 nomi e pseudonimi: in stragrande maggioranza erano nomi di ebrei (italiani e stranieri), ma erano presenti anche altri autori. Non vi è dubbio che la lista fosse stata dettata da una logica antisemita: «circa 800 dei nomi erano ebrei […], ai quali si aggiungevano un centinaio di autori antifascisti». [197] A differenza della lista tedesca, quella italiana non era limitata ai soli scrittori, ma comprendeva anche commediografi e compositori. Inoltre la lista tedesca era più breve: includeva circa 600 nomi. Paradossalmente poteva sembrare che i fascisti fossero stati più severi: infatti Sigmund Freud e il romanziere Hermann Hesse non comparivano nella lista nazista, ma erano invece presenti in quella italiana. Eccezioni rilevanti furono riservate a due scrittori triestini: Ettore Schmitz, in arte Italo Svevo, e Umberto Poli, in arte Umberto Saba. I due nomi infatti non comparvero nella lista, anche se è noto che il primo sia stato ostacolato dalla Cultura popolare che gli impedì di pubblicare alcune sue opere; il secondo invece aveva contattato il duce già nel 1938, dopo la promulgazione delle leggi antisemite, e Mussolini aveva riconosciuto i «meriti eccezionali» dello scrittore, dovuti al suo interventismo e alla breve collaborazione al «Popolo d’Italia» nel 1915; perciò venne escluso dalla lista di proscrizione.[198]
 
In un secondo tempo la lista fu distribuita alle questure dipendenti e successivamente, l’11 aprile 1942, fu inviata al ministero degli Affari Esteri e alla DG Stampa Estera. Infine, il 7 maggio 1942, il ministero dell’Educazione Nazionale inviò l’elenco ai direttori delle biblioteche pubbliche governative e ai soprintendenti bibliografici, che avevano il compito di vigilare e tutelare anche le biblioteche pubbliche non governative.[199] La circolare n. 6848 che lo accompagnava, firmata da Edoardo Scardamaglia che era il direttore generale delle Accademie e Biblioteche, avvertiva che «”delle opere degli autori stessi” ora veniva “vietata la lettura in sede e il prestito”».[200] Perciò, in pratica venne dato ordine di vietare la lettura di tutte le opere di quegli autori nelle biblioteche.
 
Complessivamente, dunque, le misure di controllo e repressione contro gli autori ebrei furono durissime, anche se la strategia e le operazioni non furono univoche, e anzi, furono contraddistinte da diversi cambi di direzione. L’eliminazione degli autori ebrei, infatti, non si svolse seguendo un programma prestabilito, sebbene fosse determinata fin dall’inizio da una ben definita intenzionalità persecutoria e da un obiettivo repressivo che venne pienamente raggiunto. Nonostante ciò, ancora oggi «della persecuzione culturale antisemita durante il fascismo si sa pochissimo e in particolare della censura libraria che colpì centinaia di autori ebrei e coinvolse nel ruolo di censori altre centinaia di persone».[201] Nonostante si sia trattato di un avvenimento di portata vastissima, gli stessi testimoni sopravvissuti non vi si sono soffermati. Di certo, il risultato fu che «negli anni della persecuzione, con sufficiente naturalezza l’editoria italiana fece a meno degli autori ebrei».[202] In altre parole, il fatto che tra il 1938 e il 1942, «gli italiani, come i tedeschi, avevano acceso il loro rogo di libri»,[203] rimase nascosto. In Italia migliaia di volumi, forse milioni, scomparvero, ma nessuno ne parlò. Neppure dopo la guerra «quel plumbeo e surreale silenzio venne infranto. Il silenzio di prima si trasformò con facilità nel silenzio di dopo».[204] Quello fascista era stato un rogo «senza fuoco e senza fiamme».[205]


[191] Fabre, L’elenco, cit., p. 266.
[192] Cfr. Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 137.
[193] Ivi, p. 136.
[194] Ivi, pp. 136-137.
[195] Fabre, L’elenco, cit., p. 361.
[196] Ivi, p. 3.
[197] Bonsaver, Mussolini censore, cit., p. 138.
[198] Ivi, pp. 138-139,
[199] Cfr. Fabre, L’elenco, cit., p. 4.
[200] Ibidem.
[201] Ivi, p. 7.
[202] Ivi, p. 409.
[203] Ivi, p. 7.
[204] Ivi, p. 430.
[205] Ibidem.
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CAPITOLO 3 - LA CENSURA CREA I "NUOVI ITALIANI"

Gli anni Trenta, anni di consolidamento di un regime teso a creare un incondizionato consenso di massa, permettono di cogliere mutamenti significativi nelle abitudini e nel costume di ampi strati sociali. In questo periodo la censura libraria mussoliniana interessò lo sviluppo della mentalità dell’intera società. Furono fermati i libri i libri di poesie, di novelle  – quella che in sintesi si definiva «letteratura amena» - e i romanzi che anche solamente accennavano al suicidio, o che facevano riferimenti all’aborto; inoltre finirono nel mirino dei censori le vicende a sfondo criminale sia perché erano presenti scene crude, sia perché erano accusate di incentivare i delitti; infine, la tutela del buon costume e il rispetto della morale erano garantiti dai tagli imposti alle scene di nudo e di adulterio ed eventualmente dalla rimozione di interi personaggi (adultere e prostitute). Parallelamente furono promosse le pubblicazioni di «libri evento politico-giornalistici»,[206] ovvero quelli che promuovevano le grandi imprese: ebbero particolarmente successo le biografie mussoliniane, le quali proponevano la figura dell’eroe guerriero e costruttore che sarebbe diventata un caposaldo nell’immaginario di massa. In sostanza fu promosso il genere di letteratura che si ritenne fosse necessario in vista di un’educazione politica e morale dei lettori.[207] Si trattava naturalmente di un progetto editoriale fortemente impegnato sul piano della propaganda: tali tematiche erano importanti per un regime che puntava a realizzare le proprie ambizioni totalitarie e a garantire «la purezza morale e politica»[208] di tutta la società. In linea di massima, la censura fascista favorì la diffusione delle opere «utili» per avvantaggiare l’educazione dei giovani e dell’intera popolazione. I libri e la stessa parola scritta divennero un mezzo fondamentale per l’educazione delle masse, in quanto rappresentavano un potente fattore di mediazione dei valori politici e sociali del fascismo: attraverso il filtro della scrittura, grazie al suo potenziale emotivo, qualsiasi avvenimento era in grado di «raggiungere alla radice i sentimenti e gli affetti della stirpe e della famiglia, imprimendo quelle profonde tracce di commozione che sono le molle perenni dell’evoluzione».[209] Il fascismo divenne portatore di un rinnovamento profondo, intellettuale e morale, degli italiani; l’artefice di una rivoluzione culturale in cui ogni strumento era predisposto per l’elevazione politica e spirituale di ogni individuo: per questo motivo i libri dovevano colpire direttamente l’immaginazione del popolo. L’incontro tra il regime e l’editoria avveniva nell’individuazione di un destinatario di massa che era «al tempo stesso soggetto del consumo ed oggetto dell’acculturazione fascista».[210] Questo rapporto, però, era sottoposto alle tensioni di un sistema produttivo e culturale spesso in conflitto con le esigenze «pedagogiche» del potere politico, nelle quali erano presenti diverse dinamiche: «testuali ma anche scientifiche, politiche, ideologiche, economiche e sociali»;[211] il coinvolgimento politico era quindi profondamente legato alla materialità degli interessi in gioco. Nella politica totalitaria e imperialista del fascismo era dominante la preoccupazione per il ruolo delle donne, le quali ebbero un ruolo centrale in diverse campagne propagandistiche, come la politica di ruralizzazione e la battaglia per aumentare il tasso di natalità: la prima era legata alla spinta all’autarchia e all’autosufficienza, mentre la seconda divenne una scusa per l’espansione imperialistica. I discorsi di Mussolini sottolineavano costantemente che le donne dovevano rimanere estranee al mondo industrializzato, dove il tasso di natalità diminuiva, e all’interno della società rurale, dove la casa e la famiglia erano centrali. Per ottenere questi risultati, durante gli anni trenta furono adottate misure con il duplice intento di «proteggere» donne e bambini e di aumentare il tasso di natalità.


[1] Adolfo Scotto di Luzio, «Gli editori sono figliuoli di famiglia». Fascismo e circolazione del libro negli anni Trenta. Fondazione Istituto Gramsci, in «Studi Storici», 1995, Vol. 36, n. 3, p. 763.
[2] Ivi, pp. 763-791.
[3] Fabre, Il censore e l’editore, cit., p. 34.
[4] Scotto di Luzio, «Gli editori sono figliuoli di famiglia», cit., p. 804.
[5] Ivi, p. 810.
[6] Ivi, p. 764.
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3.1. LA QUESTIONE DEMOGRAFICA

I propositi fascisti di ricercare la rigenerazione fisica e morale degli individui e della nazione, e il ricorso della propaganda al tema dell’efficienza razziale ed economica sono alcune delle dimensioni attraverso cui si declinò il connubio tra fascismo ed eugenetica.[212] Infatti, i programmi di eugenetica e di previdenza sociale avevano lo scopo di «impedire il declino della forza dello Stato nei rapporti internazionali [e] accrescere il suo controllo sull’insieme della popolazione».[213] In quanto la diversità razziale e l’emancipazione femminili erano percepiti come ostacoli opposti al raggiungimento di questi obiettivi, la «politica della vita» sfociava nell’identificazione con l’antifemminismo, il razzismo e l’antisemitismo. Difatti, nell’ottica fascista, la ridefinizione dei compiti e dei ruoli che ogni donna era tenuta a svolgere in seno alla famiglia e in generale alla società era vista come una necessità di primaria importanza, dal momento che

si facevano maggiormente ricadere le responsabilità tanto della disgregazione del tradizionale istituto familiare, con conseguente rilassamento dei costumi e perdita di autorità dell'uomo, quanto di quello che, agli occhi di illustri demografi e statisti asserviti al regime, andava sempre più assumendo le dimensioni di un irreversibile e patologico declino demografico della nazione.[214]

Il superamento di queste problematiche per raggiungere l’obiettivo della crescita della popolazione fu reso più difficoltoso dal sorgere di nuovi problemi:

il declino dei tassi di natalità, le minacce all’identità dello Stato nazionale insite nella diversità razziale e nel profilarsi di spinte nazionaliste delle minoranze etniche, i differenziali nella fertilità dei gruppi sociali che facevano temere l’espansione della parte meno nobile e forte della popolazione a danno delle élite.[215]

Per questo motivo, allo scopo di accrescere le nascite, lo Stato fascista proibì l’aborto e l’uso dei metodi anticoncezionali; allo stesso tempo «favorì nettamente l’uomo all’interno della famiglia, sul mercato del lavoro, nel sistema politico e nella società più in generale».[216] Inoltre, per mantenere l’alleanza con il fronte conservatore, il regime «esercitò una pressione ininterrotta sul livello dei salari e dei consumi».[217] Nonostante questo, però, fino alla Seconda guerra mondiale l’Italia si trovò in una posizione decisamente arretrata rispetto agli altri paesi industrializzati a causa del basso tenore di vita che pervadeva tutti gli strati della società.
 
L’avvio della campagna demografica avvenne a partire dal discorso dell’Ascensione tenuto da Mussolini il 26 maggio 1927; a questa si affiancò contemporaneamente l’avvicinamento tra il fascismo e la Chiesa Cattolica. Nonostante la Chiesa cattolica non fosse disposta a rinunciare al proprio controllo sulla cultura e sulla società[218], le contraddizioni con il programma del fascismo non si risolsero con il rifiuto dell’eugenetica da parte del regime; al contrario, in Italia l’eugenetica cosiddetta «latina» si allontanò dalla precedente esperienza dell’eugenetica «qualitativa», che prevedeva il controllo eugenetico del matrimonio, la limitazione delle nascite e la selezione delle persone che si sarebbero dovute riprodurre, per avviarsi invece verso l’affermazione di un’eugenetica «quantitativa», pronatalista e popolazionista. [219]         
Di fatto, l’alleanza tra l’eugenetica e il fascismo era possibile, secondo Agostino Gemelli, autore nel 1924 di una relazione che sintetizza la posizione cattolica riguardo il tema dell’eugenetica, tramite l’assunzione della condotta cattolica della castità, la quale permetterebbe di combattere «la possibilità dei figli illegittimi, la trasmissione delle malattie veneree e la concezione di una prole o troppo numerosa o tarata».[220] In ogni modo, la rinascita del cattolicesimo nella vita pubblica ebbe notevoli effetti sulla vita di molte donne, infatti le istituzioni della Chiesa propagandarono nuovi modelli femminili e nuovi codici di condotta morale. In base a questo, la letteratura cattolica si propose di modernizzare i costumi e di ristabilire le forme di religiosità tradizionali. Sulla stessa falsariga, le scuole cattoliche si concentrarono sulla necessità «di sviluppare l’individualità femminile, che avrebbe aiutato le giovani a difendersi dalle seduzioni dell’esistenza moderna, senza soccombere a forme individualistiche di emancipazione».[221] Al pari della Chiesa, il regime mirava a reagire all’emancipazione del periodo interbellico, ma a differenza dei cattolici ostacolava e contemporaneamente sfruttava il desiderio di modernità: a tutti i livelli le donne venivano sottoposte a spinte contrastanti. La confusione e lo smarrimento sono quindi una diretta conseguenza della stessa contradditoria politica femminile fascista che pretendeva che le donne fossero «al contempo cittadine responsabili e membri subordinati della famiglia, persone attive nella vita pubblica dell’Italia nuova, ma sottomesse all’autorità paterna».[222]


[212] Cfr. Francesco Cassata, Molti, sani e forti. L’eugenetica in Italia, Bollati Boringhieri, Torino, 2006, p. 141.
[213] Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio Editori, Venezia, 2001, p. 21.
[214] Helga Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell’epoca fascista, Fondazione Istituto Gramsci, in «Studi Storici», 1994, Vol. 35, n. 1, p. 208.
[215] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 21.
[216] Ivi, p. 23.
[217] Ivi, p. 27.
[218] Risale a dicembre del 1930 l’enciclica Casti Connubii, in cui, per volere di Papa Pio XI, si afferma la condanna del birth control, dell’aborto, della sterilizzazione e del certificato prematrimoniale. Vedi Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 141.
[219] Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 141-142.
[220] Ivi, p. 151.
[221] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 203.
[222] Ivi, p. 167.
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3.2. - CONTRO L'EMANCIPAZIONE FEMMINILE

Come si è visto, nella metà degli anni venti, il governo fascista diede inizio alla politica pronatalista, «identificando le donne come una vitale risorsa nazionale».[223] Questo processo presupponeva di dover restaurare l’ordine nel rapporto tra i sessi, il quale era stato messo sottosopra dalla Prima guerra mondiale e dal turbolento dopoguerra. Infatti, durante il conflitto le donne erano state chiamate a collaborare attivamente sia nell’industria bellica sia direttamente al fronte, come infermiere o giornaliste, conoscendo una mobilitazione di massa destinata a mettere in dubbio la domesticità intesa come destino femminile. Dalla guerra sembra emergere una «donna nuova», emancipata e sessualmente disinibita. Di conseguenza, il desiderio di emancipazione delle donne cominciò a essere visto come contrario all’incremento delle nascite; per il fascismo esso divenne la causa principale del declino della natalità, assieme al lavoro femminile. L’emancipazione veniva descritta come «un miscuglio di frivolezze di donne giovani e privilegiate, di vanità femminile, di individualismo liberale, di falso senso dei bisogni materiali, di irreligiosità».[224] Per contrastare questa tendenza, la propaganda fascista costruì due immagini femminili. La prima era la «donna-crisi: cosmopolita, urbana, magra, isterica, decadente, e sterile»;[225] la seconda era la «donna-madre: patriottica, rurale, florida, forte, tranquilla, e prolifica».[226] Il regime fascista si impegnò, dunque, fin dagli esordi, a decretare l’emarginazione politica, sociale ed economica della componente femminile dalla società italiana, ostacolandone in ogni modo e tramite una legislazione decisamente discriminatoria e repressiva la possibilità di accedere al lavoro[227], «esaltandone e strumentalizzandone la funzione procreativa come sublime missione patriottica e civile, relegandola – in sostanza – al tradizionale ruolo di casalinga, di soggetto improduttivo totalmente dipendente dalla figura del padre/marito».[228] Questo progetto propagandistico raggiunse il culmine nel testo, Politica della famiglia, uscito nel 1938. Al suo interno la prefazione del ministro dell’Educazione nazionale Bottai, afferma che
 
L’emancipazione femminile, come è contraria agli interessi della famiglia, è contraria agli interessi della razza, la donna deve tornare sotto la sudditanza dell’uomo: padre o marito; sudditanza, e quindi inferiorità: spirituale, culturale ed economica.[229]
 
Tuttavia, mentre il fascismo cercava di creare un modello femminile sostanzialmente anacronistico, iniziavano a percepirsi i primi effetti del processo di industrializzazione e il conseguente processo di massificazione della società. In questi anni l’America iniziò a popolare la fantasia della popolazione italiana, e almeno parzialmente, l’attenzione che suscitava derivava dall’interesse degli intellettuali volto a decifrare l’impatto che la cultura di massa stava provocando sul territorio nazionale. La maggior parte di loro si sentiva in dovere di collocare ai poli opposti la libera donna americana e la florida donna italiana:
 
la figlia, non appena può sostenersi da sé, è una free girl, una ragazza libera, e come tale fuor dalla tutela paterna e materna. La ragazza americana, a contrario della nostra, è un’unità separata come l’uomo. Anzi, non incombendo su di lei i pesi che gravano sull’uomo, essa si sente più libera e perciò più alta di tre spanne dell’uomo.[230]
 
Per porre rimedio al danno provocato dalla cultura commerciale, che proponeva nuove immagini di bellezza, anche tramite il cinema, la fotografia e la pubblicità, la propaganda fascista cercò di manipolare questa nuova coscienza allo scopo di sorvegliare e contenere gli impulsi emancipazionisti. A questo scopo il fascismo si schierò con la Chiesa nella sua «crociata della purezza»[231] contro la caduta della moralità pubblica. Questa battaglia fu fortemente appoggiata dal capo del Comitato nazionale per la correttezza della moda, Amadeo Balzari, il quale condusse una «sollevazione universale contro l’orrido vizio, la vergognosa ferita dell’abbigliamento indecente e scandaloso».[232] La conseguenza fu che alla fine degli anni venti, le chiese italiane esponevano divieti di ingresso per le donne che si presentavano con un abbigliamento «immodesto».
 
Allo stesso modo il regime lanciò i propri modelli di bellezza muliebre, e iniziò ufficialmente l’operazione contro la «donna-crisi» nel 1931, con l’ordine ai giornali, da parte di Gaetano Polverelli che era il capo dell’Ufficio stampa di Mussolini, di eliminare «le immagini femminili troppo magre e mascolinizzate che rappresentavano tipi femminili sterili».[233] Precursori di questa «battaglia per il grasso»[234] erano stati alcuni epiteti pubblicati dalla rivista culturale fiorentina «Il selvaggio» come ad esempio: «Di donna senza ciccia / Strapaese non s’impiccia. Donna che pesa un’oncia / La propria casa sconcia»;[235] oppure ancora: «In stretto bacino / mal si cova il piccino. / In razional alcova / uova non si fa».[236] Alla metà degli anni trenta un’intera collezione di versi triviali, canzoni e barzellette fa capire che la campagna contro la «donna-crisi» aveva raggiunto gli esiti sperati.
 
In quest’ottica, il corporativismo fascista risulta essere allineato con la biotipologia, ovvero la «biologia politica» elaborata dall’endocrinologo Nicola Pende.[237] Fin dal 1933, infatti, Pende delineò un progetto di «educazione della femminilità su basi biopsicologiche»[238] che si articolava su tre livelli: il corpo, il carattere e l’intelletto. Questo ovviamente si basava sempre sull’idea della donna intesa come «donna-madre»:
 
Se passiamo al campo della donna, ecco la scheda biotipologica individuale permetterci di attuare razionalmente la preparazione igienica e morale delle future madri, seguite durante la loro crescenza, corrette nelle loro possibili anomalie di sviluppo sessuale, e irrobustite a seconda dei bisogni degli organismi singoli, perché creino più tardi figli numerosi e sani; e la scheda biotipologica continuerà a seguire la donna sposa e madre per consigliarla e curarla, prevenendo tutta quella serie infinita di squilibri organici e psichici che sono così spesso legati alle varie fasi ed agli atti della vita sessuale femminile ed al periodo critico di cessazione della funzione ovarica.[239]
 
Circa l’aspetto del corpo, Pende individuò l’ideale estetico della donna, intesa come «tipo materno»: secondo lo studioso era rappresentato dallo sviluppo dell’addome inferiore e del bacino. Per quanto riguarda il carattere, invece, la donna «dovrà essere educata costantemente a sentimenti materni verso l’uomo, la “pedagogia intellettuale” nella donna favorirà necessariamente il pensiero “realistico e pratico” più che quello “astratto”».[240] Infine, secondo i dettami della biotipologia, anche nella scelta dell’ambito lavorativo la libertà della donna deve essere «severamente controllata e regolata dall’intervento dello Stato».[241] In particolare, secondo Pende, il lavoro delle donne «”sia manuale che intellettuale” ha conseguenze dannose sull’organismo della madre e sui figli»;[242] inoltre, alcuni mestieri «esercitano direttamente un’”influenza sterilizzante”».[243]
 
La conseguenza di una simile impostazione ideologico-politica fu che niente e nessuno dovesse turbare l’ordine sociale, il che, riferito alle donne, significò fare tabula rasa delle precedenti rivendicazioni emancipatorie e dichiaratamente femministe, rinnegando quindi il breve momento di euforia e di sbandamento sperimentati nell’immediato dopoguerra per rientrare nei ranghi prestabiliti.[244] In quest’ottica, i tentativi fatti dal regime per cercare di «proteggere» la popolazione da ogni possibile elemento proveniente dall’interno quanto dall’esterno furono una parte fondamentale dello sforzo di mantenere il controllo del potere sulle masse. In sostanza, il ricorso a posizioni che si erano consolidate nell’immaginario collettivo e la ripresa di tematiche sancite dalla secolare tradizione cattolica, contribuirono ad assicurare al fascismo «un fondamento di legittimità, una giustificazione teorica alla propria politica attuata nei confronti delle masse femminili».[245]


[223] Ivi, p. 69.
[224] Ivi, p. 83.
[225] Ivi, p. 109.
[226] Ibidem.
[227] «[L’articolo 7 della legge Sacchi del 1919] escludeva le donne da quelle posizioni che implicavano l’esercizio dell’autorità giudiziaria, dei diritti e del potere politico, o la difesa militare dello Stato; l’ordinanza n. 37 del 1920 precisava che le donne non potevano essere capitani o proprietarie di navi commerciali, uffici giudiziari, funzionari delle amministrazioni dello Stato, diplomatiche o addette d’ambasciata, membri delle forze armate; inoltre, nella riforma del sistema scolastico, i legislatori fascisti avevano stabilito che alle donne mancava il prerequisito di una visione virile della vita, necessario per dirigere le scuole superiori e per insegnare alcune materie chiave: storia, filosofia, italiano, latino, greco; I Regi decreti legge 6 maggio 1923 e 9 dicembre 1926 esclusero pertanto le donne dai concorsi per l’insegnamento nelle classi quarte e quinte degli istituti tecnici e nelle classi del liceo, nonché dai posti di preside; […] nel marzo 1934 l’amministrazione pubblica limitò al 5 per cento la presenza delle donne nei livelli direttivi e al 20 per cento nei posti di minor responsabilità; in quello stesso anno, nel settore privato, con accordi tra gli imprenditori e la Confederazione nazionale fascista del credito e delle assicurazioni, fu limitato il numero delle donne addette al 12 per cento nelle banche e al 15 per cento nelle assicurazioni; ma tutte queste restrizioni furono superate dal decreto legge del 5 settembre 1938, n. 1514, che […] imponeva una quota massima del 10 per cento di donne nelle aziende medio grandi, pubbliche e private, e prevedeva di escluderle completamente dagli uffici o dalle imprese con meno di dieci addetti». Cit. De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., pp. 247-248.
[228] Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 220.
[229] Ferdinando Loffredo, Politica della famiglia, presentazione di Giuseppe Bottai, Bompiani, Milano, 1938, p. 369.
[230] Racconto di un viaggiatore in America riportato in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., pp. 283-284.
[231] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 278.
[232] Ivi, p. 279.
[233] Ivi, p. 287.
[234] Ivi, p. 288.
[235] Gazzettino, Donne, in «Il selvaggio», 9, n. 7, agosto 1932, p. 42. Cit. in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 288.
[236] Ibidem.
[237] Cfr. Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 196.
[238] Nicola Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, Cappelli, Bologna, 1933, p. 108. Cit. in Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 200.
[239] Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 200.
[240] Ivi, pp. 200-201.
[241] Pende, Bonifica umana razionale e biologia politica, cit., p. 142. Cit. in Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 201.
[242] Cassata, Molti, sani e forti, cit., p. 203.
[243] Ibidem.
[244] Cfr. Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 212.
[245] Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 209.
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3.3. IL ROTOCALCO

Nel corso del ventennio, la «donna nuova», celebrata dalla retorica ufficiale del regime tramite il recupero dell’immagine cattolico-conservatrice della sposa e della «madre esemplare», si trovò al centro di un processo di trasformazione che investì tutte le strutture sociali, economiche e ideologiche della nazione. In questo clima di difficile coesistenza tra conservatorismo e modernità, il mondo dei mezzi di comunicazione di massa si arricchì di un nuovo prodotto che rappresentò la grande novità dell’editoria italiana degli anni trenta: il rotocalco.[246] Essendo il tipico esponente di un’industria culturale dominata dalla logica del mercato, esso risulta essere «uno “specchio” dei gusti e delle abitudini di una società in rapido mutamento».[247] L’analisi della stampa periodica femminile, perciò, permette di verificare con quale efficacia la propaganda ideata da Mussolini sia riuscita a penetrare nelle masse femminili, ossia quelle che ufficialmente per il regime erano «il principale baluardo a difesa dei genuini valori del passato».[248] L’obiettivo era quello di trasformare le donne in «donne nuove» consapevoli delle proprie responsabilità e dei propri doveri, quindi perfettamente integrate nel sistema fascista.
 
La progressiva scomparsa delle rubriche dedicate ai successi dei movimenti femminili e femministi, causata dai rigidi controlli del sistema censorio, si tradusse in una «graduale involuzione ideologica e politica della stampa periodica»[249], soprattutto di quella rivolta al pubblico femminile. Di conseguenza, sulle testate femminili ufficiali era presente principalmente il modello muliebre «oleografico e stereotipato, così caro alla cultura maschile e maschilista dell’epoca»,[250] ossia il modello cattolico e fascista, il cui orizzonte si esauriva interamente nell’ambiente domestico. L’indottrinamento culturale esercitato sulle lettrici tramite l’intervento settimanale di «esperti», che avevano in realtà l’obiettivo di mantenere le donne in una situazione di sottocultura, avveniva tramite interventi in apposite rubriche dove venivano inseriti «suggerimenti su come trasformarsi in “mogliettine” semplici e carine, in madri affettuose, in casalinghe econome ed aggiornate sulle ultime novità tra i prodotti di consumo».[251] Ad esempio, la rivista «Eva» si rivolgeva così alle sue lettrici impartendo consigli di condotta:
 
State a sentire, care amiche. Una moglie perfetta dev'essere buona, modesta, coraggiosa, affettuosa; deve praticare almeno uno sport che le conservi agile il corpo; [...]; non deve disprezzare le fatiche più umili: nemmeno lo strofinaccio e la scopa devono ripugnarle. La mattina si alzerà mezz'ora almeno prima del marito; gli preparerà la colazione con le sue mani, poi si farà bella per sedersi davanti a lui fresca, ordinata, civettuola [...] Non deve sfuggirle il più piccolo buco in una calza, ma in società deve mostrarsi al corrente degli ultimi successi librari e delle novità teatrali [...] Avvertenza importantissima: non presentarti mai in disordine e spettinata al tavolo della prima colazione. E cura molto il tuo aspetto, in tutte le ore del giorno [...] Tuo marito ti sarà riconoscente quanto non immagini [...].[252]
 
A partire dagli anni venti, man mano che si intensificavano gli scritti ufficiali e i discorsi del fascismo riguardo la «sublime missione» della maternità, risultò sempre più evidente il fallimento di un possibile compromesso tra il femminismo storico[253] e il fascismo; di conseguenza, ebbe inizio un faticoso processo di adattamento da parte della stampa periodica femminile che fu costretta ad adeguarsi alle direttive del regime. Al concetto di «uguaglianza» tra i due sessi, che era stato difeso fino a pochi anni prima, «andarono progressivamente sostituendosi quelli di complementarità e diversità di prestazioni, di ruoli e di compiti tra uomo e donna».[254] Riprendendo l’esempio della rivista «Eva», così viene risposto al quesito «la donna è pari all’uomo?»:
 
Credo giustissimo [...] che le donne molto femminili sieno le più femministe. I1 movimento femminista che è crollato, è crollato appunto perché voleva mascolinizzare la donna, snaturarla [...] Intellettualmente, l'uomo è superiorissimo [...] Ma non si potrebbe dire, a questo punto, che la donna ha essa pure il suo trionfo nella maternità?[255]
 
Anche il pensiero delle lettrici risulta essersi allineato al moralismo ideologico che ormai dilagava all’interno dell’intero ambiente culturale. Infatti la risposta di Marioletta lo riassumeva egregiamente:
 
Secondo me, la donna è pari all'uomo soltanto nei doveri. Non nei diritti, per la differenza morale e spirituale che è la conseguenza della diversità di natura che li divide.[256]
 
In quest’ottica, ogni cambiamento nel ruolo della donna portò necessariamente un analogo cambiamento nel ruolo dell’uomo e viceversa. Infatti, l’obiettivo del regime era quello di preservare la virilità intesa come il fulcro della «vitalità» nazionale: «La vitalità e la virilità sono alla base della morale nostra»,[257] si legge nel 1934 sul «Popolo d’Italia». Quindi venne creata la contrapposizione ideologica tra la virilità del sistema fascista e l’impotenza dell’antifascismo.           
Fino alla metà degli anni venti, l’iconografia ufficiale dello «squadrista» rimase fedele all’immagine creata dal futurista Mario Carli nel 1919: «con gli occhi ardenti, fieri ed ingenui, la bocca sensuale, energica, pronta a baciare con furore, a cantare con dolcezza e a comandare imperiosamente; [...] la sua eleganza sobria-virile gli consentiva di correre, di lottare, di svincolarsi, di danzare e di arringare una folla».[258] Ma dall’altro lato Mussolini desiderava che le sue truppe tornassero a casa, in quanto il «vero uomo» era il capofamiglia: «Non è uomo chi non è padre».[259] Perciò, nell’«Italia nuova», i «veri uomini» dimostravano la loro virilità non più «picchiando o purgando con l’olio di ricino i loro nemici socialisti o democratici-liberali, ma spargendo i semi di una prole numerosa».[260] Quindi, anche per gli uomini la propaganda del regime si concentrava sull’obiettivo di incrementare il tasso di natalità. Per questo motivo venne introdotta la tassa sul celibato con il regio decreto legge n. 2132 del 19 dicembre 1926, che fu un delle primissime misure pro-nataliste del fascismo; inoltre furono considerati illegali gli atti omosessuali con il codice penale del 1931; infine, gli impiegati pubblici vennero invitati a sposarsi e dopo il 1937 il matrimonio e il numero dei figli diventarono criteri di preferenza per la carriera: ad esempio, per alcuni, come i podestà, i rettori universitari e i presidi, ovvero le figure che fornivano un esempio di spirito civico, la paternità diventò un prerequisito.[261] Perciò anche gli uomini vennero ricondotti alla disciplina della vita familiare.
 
Tuttavia, per le donne questa campagna politica fu ancora più dura; infatti la funzione procreativa definiva «ogni aspetto del loro essere sociale»:[262] «i loro diritti sul lavoro, il contributo alla cultura, persino il volontariato erano messi in discussione dal messaggio ufficiale che il loro dovere preminente era procurare figli alla nazione».[263] Benché, talvolta, sulle riviste fossero presenti anche voci di dissenso e di polemica, queste in realtà servivano solamente a ostentare un volto aperto a tutte le idee e le posizioni provocando invece al contrario un «ulteriore consolidamento della morale corrente».[264]            
In anni in cui il ricorso a espressioni come «diritti delle donne» poteva comportare il rischio di essere sospettati di antifascismo, la pubblicistica periodica femminile riusciva ancora a tentare una debole difesa del lavoro femminile, ma soltanto a patto di fare molta attenzione ai termini utilizzati. Naturalmente il lavoro era considerato «necessario all’identità dell’uomo»,[265] ma per le donne, affermava Mussolini, «ove non è diretto impedimento, distrae dalla generazione, fomenta una indipendenza e conseguenti mode fisiche e morali contrarie al parto».[266] Quindi, sulle riviste ufficiali del periodo fascista, si passa «dal diritto al lavoro alla necessità, al bisogno di lavorare»:[267] le donne lavorano perché sono costrette a causa della crisi economica. Perciò la dittatura, essendo incapace di eliminare completamente la manodopera femminile dall’ambiente lavorativo, cercò di impedire che le donne lo considerassero «una pietra miliare sulla via della propria liberazione».[268] Se ottenevano un’occupazione, dovevano essere consapevoli che era per il fatto che nessun uomo aveva accettato in precedenza quel lavoro o che erano state costrette ad accettarlo per imprescindibili necessità familiari. Dunque, la politica familiare e lavorativa di Mussolini «sminuiva le abilità e le inclinazioni professionali delle donne non solo agli occhi dello Stato, degli imprenditori e degli uomini, ma delle donne stesse».[269]


[246] Cfr. Helga Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, Fondazione Istituto Gramsci, in «Studi Storici», 1995, Vol. 36, n. 3, pp. 812-813.
[247] Ivi, p. 813.
[248] Ivi, p. 819.
[249] Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 222.
[250] Ivi, p. 224.
[251] Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, cit., p. 826.
[252] Marina, La felicità coniugale, «Eva», 27 maggio 1933, p. 3. Cit. in Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, cit., pp. 827-828.
[253] «Resta provato essere il femminismo esagerato nient’altro che del chiaro e preciso antifascismo» si leggeva su Lince, Gli uomini e le donne, «Critica fascista», 1933, n. 16. Cit. in Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 235.
[254] Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 229.
[255] A. Zamberletti, Rispondete ai nostri referendum. La donna è pari all'uomo?, «Eva», 6 maggio 1933, p. 14. Cit. in Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, cit., p. 840.
[256] Marioletta, intervento in «Eva», 6 maggio 1933. Cit. in Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, cit., p. 842.
[257] Cit. in Maya De Leo, Queer. Storia culturale della comunità LGBT+, Einaudi, 2021, p. 192.
[258] Cit. in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 72.
[259] Mussolini, Opera omnia, cit., vol. XXIII, p. 216. Cit. in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 72.
[260] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 72.
[261] Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 72.
[262] Ivi, p. 73.
[263] Ibidem.
[264] Dittrich-Johansen, La “Donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, cit., p. 843.
[265] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 232.
[266] Mussolini, Macchina e donna, (31 agosto 1934), in Opera omnia, cit., vol. XXVI, p. 311. Cit. in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 232.
[267] Dittrich-Johansen, Dal privato al pubblico: Maternità e lavoro nelle riviste femminili dell'epoca fascista, cit., p. 235.
[268] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 232.
[269] Ibidem.
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3.4. CONTRO L'ABORTO E IL SUICIDIO

Per combattere quella che sospettava essere la prima causa del declino delle nascite, il governo fascista cercò di sollecitare i medici, le ostetriche e il personale nei centri di assistenza perché intervenissero nella lotta contro l’aborto. Per la dittatura il modo più facile per impedire il controllo delle nascite sembrava quello della repressione. Il regio decreto legge n. 1848 del 6 novembre 1926 proibì «la messa in mostra, la vendita, il possesso, la distribuzione, la produzione, l’importazione di opere letterarie o scientifiche, incisioni, litografie, disegni, oggetti e così via che fossero di offesa alla morale pubblica»;[270] il divieto si estendeva a qualsiasi cosa facesse riferimento ai mezzi di prevenzione o di interruzione della gravidanza. Inoltre, nel 1931 il codice penale, che era dedicato ai «delitti contro la integrità e la sanità della stirpe»,[271] stabilì pene pesanti: da due a cinque anni di reclusione, per chi procurasse o aiutasse l’aborto, e da uno a quattro anni per la donna che lo praticasse da sola.[272] La legislazione successiva introdusse punizioni per chiunque «incitasse pubblicamente all’uso di mezzi anticoncezionali o abortivi, anche indirettamente o con pretesti scientifici o terapeutici».[273] In questo modo, la soppressione dell’informazione sulla contraccezione era sostenuta dalla legge di pubblica sicurezza: creare impedimenti alla fecondità del popolo italiano diventava un vero e proprio crimine contro lo Stato.
 
Per quanto riguarda i suicidi, invece, si sa che il 9 dicembre 1932 Polverelli chiese all’Istat una panoramica completa del numero di suicidi avvenuti in Italia negli ultimi trent’anni:[274] questa richiesta era ovviamente sempre legata alla questione demografica. Dai dati forniti dall’Istat risultò che, a partire dal 1900, la percentuale di suicidi era cresciuta in modo costante in proporzione al numero di abitanti, a parte durante gli anni della guerra fino al 1921, quando si era tornati ai numeri precedenti. Dal 1922 in poi, la percentuale era aumentata in modo più incisivo, toccando un massimo di 10,6 suicidi ogni 100mila abitanti nel 1927.[275] Da un lato questi dati mostrano che il governo non riusciva a controllare un fenomeno sociale molto grave, che anzi era in rapido aumento; dall’altro mostra che «sempre più fascistizzato il paese, sempre più alto il numero di suicidi: la cosa dava da pensare».[276] Fu dopo questa indagine statistica che iniziò un controllo censorio ancora più severo in materia di suicidi e di cronaca nera, sia per quanto riguarda i libri sia per i film.
 
Il primo caso noto, di un provvedimento di questo tipo, fu il sequestro avvenuto il 12 aprile 1933 del libro di Elio Talarico, La fatica di vivere, che romanzava una serie di fatti di cronaca nera. Successivamente, il 3 settembre 1933, furono presi dei provvedimenti contro due libri Mondadori appartenenti alla collana appena nata dei «Romanzi della palma»: il primo, Bohème ‘900 di Roland Dorgelès raccontava di un aborto; il secondo, Storia di una notte di Joe Lederer, trattava di un suicidio.[277] Il divieto di pubblicare trame di questo tipo, a differenza di quanto era accaduto con i divieti per i giornali, non aveva più l’obiettivo di creare la giusta immagine dell’Italia fascista da proiettare all’estero; ora la censura aveva «uno sfondo più ampio, “sociale”, “culturale” in senso lato, e rientrava in un progetto generale di costruzione della mentalità».[278] Dopo il caso dei libri pacifisti, che erano stati i primi a essere colpiti dal sistema censorio, era arrivato il turno di quelli che includevano storie di aborti, di suicidi o di cronaca nera, «un incubo che da allora non sarebbe più cessato».[279]


[270] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 88.
[271] Ibidem.
[272] Cfr. De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 92.
[273] Ivi, p. 88.
[274] In Fabre, Il censore e l’editore, cit., pp. 210-211.
[275] Ibidem.
[276] Ibidem.
[277] Ivi, pp. 212-213.
[278] Ivi, p. 214.
[279] Ivi, p. 212.
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3.5. FORMARE LE GENERAZIONI DEL DOMANI

L’aspetto fondamentale che il governo fascista doveva considerare per perseguire l’obiettivo di costruire uno «Stato nuovo» era la formazione dei giovani, i quali rappresentavano il futuro del popolo italiano. Infatti, tramite la mobilitazione dell’infanzia e il suo indottrinamento, il fascismo mirava alla trasformazione del carattere degli italiani: i bambini erano visti come vasi vuoti che dovevano essere riempiti di nozioni morali e politiche. [280] Allo stesso modo, nell’ottica del discorso nazionalistico, i bambini non sono solo una parte, ma sono visti come un «prototipo del popolo, nel senso che il popolo viene considerato e di conseguenza trattato come un minore da educare, conquistare, sedurre, se occorre ingannare».[281] Perciò il controllo di Mussolini si concentrava sulle masse, le quali avrebbero potuto costituire una minaccia al suo progetto. Al suo «popolo bambino» Mussolini proponeva le gesta del regime, che venivano descritte come un racconto avventuroso e appassionante con l’obiettivo di provocare il coinvolgimento di ogni italiano agli ideali del fascismo.
 
La principale forma di controllo esercitata dal governo fascista sulle nuove generazioni avveniva tramite la scuola: i programmi di studio furono modificati, con particolare attenzione alla scuola elementare, la quale costituiva la prima tappa essenziale per la costruzione di una nuova coscienza politica. Per questo motivo nelle classi venne fatta entrare l’educazione politica tramite la letteratura di propaganda, con l’obiettivo di stimolare nei bambini il desiderio di divenire i protagonisti del periodo storico che stava vivendo il paese, questo progetto aveva lo scopo di promuovere una mobilitazione politica fin dall’infanzia.[282] Verso la fine degli anni trenta, per ordine del ministro della Cultura popolare, le scuole iniziarono a installare nelle classi diversi autoparlanti «per bombardare gli studenti con le roboanti frasi tratte dai discorsi di Mussolini ai raduni “oceanici”».[283] La creazione del «popolo nuovo» fascista non fu, però, affidata solamente alla scuola; anche le organizzazioni giovanili svolsero un ruolo determinante nel plasmare le nuove generazioni. Nel 1928 le associazioni giovanili non sottoposte al controllo del regime furono messe al bando e divenne obbligatoria l’iscrizione all’Opera nazionale Balilla. Le organizzazioni giovanili avevano il compito di educare, e controllare, gli iscritti durante il loro tempo libero e dovevano far nascere in loro il sentimento di cameratismo che li avrebbe dovuti guidare per tutta la vita.[284] Inoltre, queste organizzazioni erano finalizzate a rafforzare l’idea della divisione del lavoro tra i sessi: le attività dei ragazzi erano incentrate «sugli sport competitivi, le escursioni di tipo militare e , negli anni trenta, le esercitazioni con le armi finte, perfettamente adeguate al motto del giornale dei Balilla, Libro e moschetto»; le attività delle ragazze erano basate invece «sul soccorso, la carità, la ritmica, e i corsi di puericultura, floricultura e decorazione, arti femminili ed economia domestica».[285] L’indottrinamento degli italiani a partire dalla più tenera età attraverso il controllo sia durante l’orario scolastico sia in quello extrascolastico, secondo i piani del regime, avrebbe determinato una trasformazione profonda del popolo italiano che sarebbe giunto a essere un «italiano nuovo». Durante le varie attività i maschi eseguivano «esercitazioni a ranghi compatti, ubbidendo a ordini precisi»,[286] mentre le femmine «danzavano in cerchio o sfilavano con le loro bambole in braccio, nella posizione corretta in cui la madre deve tenere il neonato».[287] Quando, nel 1937, tutti i gruppi furono fatti confluire nella Gioventù italiana del littorio, che fu posta sotto il comando diretto del Partito nazionale fascista, essi pronunciarono lo stesso giuramento di fedeltà a Mussolini: «In nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del duce e di servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue la Causa della Rivoluzione Fascista».[288]


[280] Cfr. Caterina Sinibaldi, Between Censorship and Innovation. The Translation of American Comics during Italian Fascism, «New Readings», 2016, vol. 16, p. 8.
[281] Antonio Gibelli, Il popolo bambino. Infanzia e nazione dalla grande guerra a Salò, Einaudi, Torino, 2005, p. 4.
[282] Ivi, p. 265.
[283] De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 218.
[284] Ibidem.
[285] Ivi, p. 219.
[286] Ibidem.
[287] Ibidem.
[288] Cit. in De Grazia, Le donne nel regime fascista, cit., p. 219.
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3.6. LA CENSURA DELLA STAMPA PERIODICA GIOVANILE

Nell’ottica fascista di dover plasmare le nuove generazioni, non era tollerabile il rischio che la gioventù fascista venisse corrotta da una stampa periodica per ragazzi priva di controllo. Per questo motivo, nello stesso periodo in cui veniva varata la Commissione per la bonifica libraria, il 9 e il 10 ottobre 1938, si tenne a Bologna un convegno sulla letteratura infantile e giovanile.[289] Era presente anche il Direttore Generale della Stampa Italiana Gherardo Casini, il quale fece un discorso che era di allarme generale e rispecchiava le preoccupazioni del convegno. Quindi parlò della
 
Imperiosa necessità di vigilare, di indirizzare, di trasformare; di eliminare ogni attentato – più o meno palese – alla italianità e alla forza della razza e alla formazione della coscienza. La letteratura per i ragazzi – i ragazzi di oggi – non è soltanto un problema di scrittori e di disegnatori: la letteratura per i ragazzi è anche, soprattutto, un problema politico: il giovane di oggi sarà il combattente di domani.[290]
 
La letteratura per ragazzi veniva identificata come un problema culturale e in quanto tale doveva essere affrontata come un «problema politico». La nuova letteratura per l’infanzia doveva essere animata dallo spirito patriottico ed essere perfettamente allineata all’ideologia fascista. Il convegno si concluse con una risoluzione che delineava due princìpi su cui si sarebbe dovuta fondare la nuova letteratura per l’infanzia:
 
  • Esclusione assoluta di ogni importazione straniera sia nel materiale scritto e illustrato, sia nello spirito;
  • Ispirazione schiettamente italiana come razza e innalzata dal tono imperiale, fascista, mussoliniano che noi viviamo.[291]
 
All’indomani del convegno di Bologna, gli editori furono convocati da Alfieri per ricevere le nuove direttive che avrebbero dovuto seguire riguardo i libri e i giornali per ragazzi:
 
  • Abolizione completa di tutto il materiale d’importazione straniera, facendo eccezione per le creazioni di Walt Disney, che si distaccano dalle altre per il loro valore artistico e per la sostanziale moralità, e soppressione di quelle storie e illustrazioni che si ispirano alla produzione straniera.
  • Riduzione alla metà delle pagine della parte dedicata alla pura illustrazione con conseguente aumento del testo finora quasi totalmente sacrificato.
  • La stampa per i ragazzi dovrà essenzialmente assolvere una funzione educativa, esaltando l’eroismo italiano, soprattutto militare, la razza italiana, la storia passata e presente dell’Italia.
  • L’avventura avrà la sua parte, purché sia audace e sana, ripudiando tutto ciò che vi è nelle storie criminali, paradossali, tenebrose e moralmente equivoche che inquinavano tanta parte della stampa per ragazzi.
  • I caratteri somatici dei personaggi dovranno essere spiccatamente italiani.
  • Il testo e le illustrazioni dovranno essere opera di scrittori e artisti e non di dilettanti senza preparazione.
  • Tali direttive che hanno, oltre che un valore spiccatamente politico, un’ispirazione razziale e autarchica, dovranno essere attuate completamente entro il mese di dicembre.[292]
 
Si deduce che la priorità ministeriale fosse quella di colpire i fumetti, i quali non erano in linea con i valori morali del fascismo, essendo dominati da soggetti di origine o di ispirazione straniera. Questa iniziativa nasceva dalla volontà di controllare la produzione destinata alle nuove generazioni, la quale doveva essere politicamente, artisticamente e ideologicamente idonea. Le proposte individuate durante il convegno di Bologna circa la revisione della stampa periodica giovanile erano in linea con quelle che sarebbero state le tematiche trattate dalla Commissione per la bonifica libraria. Il 13 maggio dell’anno seguente, in occasione del dibattito riguardante il bilancio del ministero, Alfieri tenne un discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni in cui descrisse con soddisfazione il lavoro svolto:
 
[la bonifica nel campo librario] è un fatto compiuto. Abbiamo sottratto la letteratura e la stampa per i ragazzi a qualsiasi influenza straniera. In questo campo l’intransigenza è un dovere. È un dovere imprescindibile. Le nuove generazioni debbono crescere nel culto delle grandi idee e delle grandi figure della Patria, nell’esaltazione di tutto ciò che significa eroismo, combattimento, sacrificio.[293]
 
Successivamente, all’inizio di ottobre del 1941, il ministero emanò una lunga serie di circolari con l’obiettivo di arginare la popolarità dei fumetti, sia quelli importati dall’America sia quelli italiani che si ispiravano ad essi. Il governo sentì la necessità di emanare queste circolari, che ribadivano restrizioni già imposte in precedenza, perché in realtà sembra che le istruzioni date agli editori nel 1938 non fossero state eseguite con molta disciplina.[294] Infatti, dopo il 1938, la strategia più usata per aggirare la censura e consentire comunque la pubblicazione dei fumetti stranieri divenne quella del camuffamento: i fumetti americani furono travestiti da italiani cambiando i nomi dei personaggi e qualche volta anche l’aspetto.[295]
 
Tra il 1938 e il 1941, Audax divenne conosciuto come Maresciallo Rossi, Jungle Jim fu trasformato in Geo e il nome di Mandrake fu italianizzato in Mandrache, mentre Tarzan divenne Sigfrido. “L’Uomo Mascherato”, traduzione italiana di “The Phantom”, diventò “Il Giustiziere Mascherato”, e fu cambiato il colore del suo costume attillato da rosso a verde. Infine, il biondo Brick Bradford (tradotto in Bruno Arcieri) acquisì capelli scuri e una carnagione più scura.[296]
 
Per fermare questa manovra che aggirava il sistema censorio, con la circolare n. 3044/B del 16 ottobre 1941, il ministero impose agli editori di giornali e periodici per ragazzi l’obbligo di:
 
troncare, concludendo, quelle narrazioni a puntate, cineromanzi, e simili, che abbiano comunque per oggetto scene di banditismo, spionaggio, agguati, aggressioni ed, in genere, ambienti loschi ed azioni violente che, anche in minima parte, abbiano il colore giallo.[297]
 
Perciò, per i ragazzi vennero prese le stesse decisioni censorie che stavano colpendo anche i romanzi gialli destinati agli adulti. Successivamente, il 5 dicembre 1941, fu emanata la circolare n. 3293/B con la quale si stabiliva che i fumetti dovevano essere aboliti da tutti gli albi e i giornali per ragazzi, e dovevano essere sostituiti tramite l’utilizzo di didascalie nella parte inferiore delle vignette o al di fuori di esse: questo provvedimento era destinato a «contrastare l’impoverimento letterario delle letture dei ragazzi».[298] Un intervento decisivo nella revisione della stampa periodica giovanile si verificò con la circolare n. 329/B del 23 gennaio 1942, la quale mirava a una revisione degli albi sul mercato, fornendo una serie di allegati che contenevano oltre mille titoli da bonificare.[299] Poco dopo, il 25 marzo 1942, con la circolare n. 1487/A il ministero ribadì l’intenzione di procedere a «una graduale, ma integrale, bonifica della produzione libraria destinata all’infanzia, all’adolescenza, alla gioventù»,[300] fissando tre obiettivi:
 
  1. eliminazione delle opere - soprattutto di vecchia stesura - che non s’intonino integralmente con lo spirito e lo stile di vita della Nazione rinnovata;
  2. limitazione qualitativa (nel senso sopra indicato) e quantitativa, delle traduzioni o riproduzioni di opere straniere;
  3. miglioramento sotto l’aspetto letterario, artistico, editoriale delle opere che continueranno ad essere ammesse in circolazione.[301]
 
Inoltre, veniva richiesto l’invio in duplice copia sia «di tutte le opere originalmente stampate prima del 28 ottobre 1922, e ancora in circolazione, sia i tutte le traduzioni o riproduzioni di opere straniere, indipendentemente dalla data di pubblicazione».[302]   
Il resoconto ufficiale dell’attività di bonifica fu presentato l’anno seguente in una relazione della Direzione generale per la stampa italiana, datata 15 febbraio 1943, in cui vennero esposti i risultati relativi all’intervento del ministero circa la stampa periodica e libraria per ragazzi.
 
Era stata fatta una revisione di tutti gli albi sul mercato e l’85 % dei titoli era stato sequestrato; era stato imposto il divieto di riproduzione di ogni materiale proveniente da nazioni nemiche. Inoltre, il ministero aveva perseguito un’«italianizzazione integrale» della stampa periodica per ragazzi: agli editori era stato imposto di scegliere argomenti italiani che avessero anche una funzione di propaganda bellica, nonché l’adozione di fisionomie e costumi italiani (eliminando quindi quelli stranieri). Dalla narrativa grafica erano poi stati aboliti i fumetti, tipici dei cineromanzi americani, prescrivendo l’obbligo di un «nuovo tipo di composizione» maggiormente intonato alla tradizione artistica italiana. Infine, senza alcuna costrizione ma grazie all’uso di un’”implacabile” revisione preventiva, il numero di periodici era stato ridotto del 48% e quello degli albi del 28%.[303]
 
Dopo quasi quattro anni, la revisione «assolutamente intransigente»[304] della letteratura, inizialmente auspicata da Alfieri, era giunta al termine e aveva contribuito in modo fondamentale al progetto di plasmare le coscienze degli «italiani del domani».


[289] Cfr. Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 145.
[290] Da «Giornale della libreria», a. LI, n. 47, 19 novembre 1938, pp. 325-7. Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., pp. 146-147.
[291] Ibidem.
[292] Ibidem.
[293] Da «Giornale della libreria», a. LII, n. 20, 29 maggio 1939, p. 168. Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 148.
[294] Cfr. Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 158.
[295] Cfr. Sinibaldi, Between Censorship and Innovation, cit., p. 16.
[296] Ibidem.
[297] Cit. in Rundle, Il vizio dell’esterofilia, cit., p. 158.
[298] Ibidem.
[299] Ivi, pp. 158-159.
[300] Ivi, p. 159.
[301] Ibidem.
[302] Ibidem.
[303] Ibidem.
[304] Ibidem.
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CONCLUSIONE

La censura fascista ebbe l’obiettivo di formare le nuove menti del popolo italiano in modo da «educare» quest’ultimo dal punto di vista politico e morale secondo l’ideologia fascista; dunque si estese e si rafforzò progressivamente durante tutto il periodo della dittatura mussoliniana. Per perseguire questo progetto, Mussolini si impegnò a perfezionare il sistema censorio, e si interessò anche ai dettagli di questo processo, che quindi divenne capillare e finì per toccare tutti i generi e le opere che venivano pubblicati. Per avere il controllo totale dei provvedimenti in campo librario, durante gli anni venti il dittatore introdusse diversi accorgimenti che gli permisero di spostare gradualmente il potere decisionale nelle sue mani. Durante questo periodo Mussolini definì la censura in stretta relazione con il concetto fascista di nazione, da costruirsi a partire dalle nuove generazioni, concepite, secondo i suoi piani, come l’incarnazione stessa dell’ideologia fascista; inoltre, il concetto fondamentale alla base del suo progetto politico fu quello della «razza», intesa anche come «salute» del popolo italiano. Nell’azione censoria, l’ideologia del fascismo raccolse sia i concetti sostenuti nel dibattito scientifico dagli studiosi dell’eugenetica, i quali promuovevano l’idea di accrescere la forza dello Stato tramite il controllo biologico della popolazione, sia quelli relativi al dibattito politico sull’incremento demografico, inteso come segno di forza della «razza». Queste opinioni portarono tanto alla crescita dell’antifemminismo, finalizzato al controllo di ogni aspetto sociale della vita delle donne, concepite essenzialmente come figure procreatrici, quanto alla diffusione dell’antisemitismo, che, come si è visto, permeò tutti i settori della società. Nell’ottica mussoliniana la censura venne pertanto a configurarsi come un programma volto a creare la «nuova razza italiana», come un autentico processo di formazione della mentalità: «prima la sua, poi quella dei seguaci, e infine quella dell’intero popolo italiano».[305]
 
Tale programma fu lungo e articolato, ebbe bisogno di diversi anni per essere portato a termine, durante i quali ci furono anche vere e proprie inversioni di marcia, fino al raggiungimento degli obiettivi sperati. La svolta fondamentale avvenne nel 1934, in concomitanza con lo sforzo per attuare una maggiore mobilitazione ideologica della nazione, promuovendo la formazione dell’«uomo nuovo» fascista. A partire dal 1934 la censura del regime diventò di fatto preventiva, benché in superficie fosse lasciato il carattere falsamente non preventivo, in modo tale da garantire un volto moderato alla dittatura che stava in realtà attuando una severa repressione culturale. In questo modo venivano celate alla scena internazionale le reali azioni del governo italiano. Dapprima furono ritirate dal mercato le opere che presentavano un’ideologia politica diversa da quella perseguita dal regime; quindi furono eliminate le opere pacifiste, in quanto proponevano un’idea sostanzialmente opposta a quella offerta dal governo, che stava attuando una propaganda legata al progetto di colonizzazione dell’Etiopia; successivamente si passò alla rimozione della «letteratura amena» e dei libri che trattavano diversi temi come quelli dell’aborto, del suicidio e delle «vite degenerate», ritirando tutte le opere ritenute contrarie ai valori morali del fascismo.
 
Tramite la circolare del 1934 venne attuato un rigido condizionamento interno del mercato librario, il quale provocò serie difficoltà agli editori, costretti in quello stesso periodo ad affrontare la difficile questione delle traduzioni. Per il regime, infatti, il numero eccessivo di traduzioni pubblicate in Italia divenne un problema, in quanto queste ultime furono ritenute responsabili di aver provocato un cambiamento nel gusto del pubblico, corrotto da una narrativa ritenuta estranea alla cultura nazionale. Questo aspetto provocò molta preoccupazione e divenne oggetto di un dibattito che spinse Marinetti e il Sindacato degli autori e degli scrittori a cercare di far imporre dei limiti alle traduzioni. Questa campagna, come si è visto, spinse gli editori italiani a fare grande attenzione alla produzione libraria e alla stampa periodica, al punto da arrivare a reazioni paradossali come cercare di manipolare o di nascondere i dati relativi alle traduzioni pubblicate. Questo fatto diventò un problema per le autorità nel momento in cui si paragonò la situazione italiana con quella delle altre potenze coloniali, ovvero quando ci si rese conto che era diventato uno scambio a senso unico: perciò la questione delle traduzioni finì per intercettare il dibattito sull’espansione della cultura italiana, scontrandosi con il pensiero, promosso da Mussolini, che la «razza italiana» fosse la «più pura al mondo»[306] e che, per questo motivo, fosse destinata a imporre la propria cultura anche all’estero. Dopo l’approvazione delle leggi razziali nel 1938, le opere pubblicate iniziarono a essere viste nell’ottica della purezza culturale: esse divennero una minaccia per la «salute intellettuale» della nazione e, in particolare, per la salute morale dei giovani e per quella delle masse meno acculturate. Per questo motivo si giunse alla decisione di porre un limite al numero complessivo delle traduzioni. Questo provvedimento portò alla vera e propria eliminazione di intere collane, ritenute responsabili di provocare danni alla “salute culturale” della popolazione.
 
Contemporaneamente, nel settembre 1938, venne istituito l’organismo responsabile della bonifica libraria, ovvero la Commissione per la bonifica, che aveva il compito di giudicare tutte le opere pubblicate in Italia a partire dal 1918 secondo criteri ideologici, morali e razziali. A questo scopo venne affidato agli editori il compito di redigere un elenco di autori ebrei, dando inizio a un’”autobonifica” che divenne una vera e propria autoepurazione, conclusasi soltanto nel 1942, quando l’elenco di autori non graditi in Italia fu pubblicato. In questo modo finì l’attenta discrezione che era stata praticata fino a quel momento: le azioni e le decisioni censorie del regime divennero di dominio pubblico. L’intera operazione si era basata sull’obiettivo imprescindibile di formare le nuove generazioni e per questo venne attuato anche un rigido processo di epurazione nel campo della letteratura scolastica e in quello della stampa periodica giovanile. In questo settore l’intransigenza doveva essere assoluta: «le nuove generazioni debbono crescere nel culto delle grandi idee e delle grandi figure della Patria, nell’esaltazione di tutto ciò che significa eroismo, combattimento, sacrificio. I giovani del tempo di Mussolini devono essere degni di Lui, e scorgere in Lui la espressione vivente delle imperiture virtù della nostra razza».[307] In sostanza il regime fascista creò un processo censorio volto a plasmare la mentalità di tutto il popolo italiano, questo obiettivo fu ampiamente raggiunto e continuò a produrre i suoi effetti anche dopo la Seconda guerra mondiale, e venne attuato con una solerzia e una minuziosità tale, che «ancora oggi, e non solo in Italia, se ne possono avvertire i riflessi».[308]


[305] Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 451.
[306] Ivi, p. 464.
[307] Discorso tenuto di fronte alla nuova Camera corporativa il 12 maggio 1939. Cit. in Fabre, L’elenco, cit., p. 243.
[308] Fabre, Mussolini razzista, cit., p. 451.
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