RICORDI IN FAMIGLIA - Andora nel tempo

Andora nel tempo
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iniziativa ideata e realizzata da MARIO VASSALLO
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RICORDI IN FAMIGLIA


RICORDI IN FAMIGLIA
(Mario Vassallo)

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RICORDI IN FAMIGLIA
Nel mondo dei nonni


Avrei potuto scegliere qualsiasi altra foto, ma ho ritenuto di utilizzare questa, perchè è un po' il simbolo delle mie origini:
i miei primi passi su quella che è sempre stata la mia casa, l'Andora di quando sono nato, con mia nonna Rina che mi ha trasmesso l'amore per le tradizioni.


Nella mia generazione, chi come me appartiene ed è cresciuto in una famiglia contadina è stato tra gli ultimi ad assaporare e vivere direttamente le testimonianze di quello che era il mondo contadino, un insieme di abitudini, tradizioni, gesti e comportamenti di tutti i giorni che la successiva e rapida modernizzazione ha trasformato, spazzando via quasi tutto ciò che apparteneva al passato, di cui si preservano i ricordi.
E proprio i ricordi, col passare del tempo si allontanano, svanendo, finendo dimenticati nell’indifferenza.
Anche piccole cose hanno contribuito a segnare le vite ed insegnare alcuni valori a molti di noi.
    
Mi sono fermato a cercare di ricordare, accorgendomi di non aver dimenticato e, per una volta, ho voluto non dedicarmi solo alla raccolta generale dei ricordi degli altri, della storia, dei documenti, ma semplicemente riportare qualcosa che mi appartiene e di cui ho fatto marginalmente parte: quotidianità che mi sono state tramandate in famiglia e che ho avuto la fortuna di poter vivere direttamente, mentre stavano gradualmente e repentinamente scomparendo, ma che mi hanno in qualche modo accompagnato fino ai 10-12 anni, segnando la mia infanzia e determinando ciò che sono e chi sono diventato.
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PIATTI DELLA CUCINA DELLA NONNA

C’era un modo di dire che mi veniva ripetuto molto spesso: “se mangi questo, diventi grande”.
In effetti non sono cresciuto più di tanto, ma sicuramente la mia famiglia ha fatto di tutto e molto di più affinchè non mi mancasse nulla …. E ci sono riusciti!!
Oltre a trasmettermi ed insegnarmi dei valori, mia mamma, mio papà e mia nonna paterna hanno fatto in modo che crescessi in modo felice e consapevole.

E parlando di golosità, quali erano le particolarità che tenevano la famiglia incatenata a tavola?
Ghiottonerie fatte di ingredienti semplici, sapori e profumi che restano vivi nei nostri ricordi, rituali tramandati con sacralità tra generazioni all’interno della famiglia, dei quali sono andati perduti il tempo, la voglia e la manualità per ripeterli e replicarli ancora.

La pasta fatta in casa non mancava mai, altro che pacchetti e scatole!
L’impasto veniva fatto una volta alla settimana, solitamente il sabato pomeriggio, utilizzando “a mèsa”, la spianatoia in legno, levigata e segnata dal lungo e ripetuto uso nel tempo.
Un bel mucchio di farina, parecchie uova, tanto da non dover aggiungere acqua all’impasto (10-12 uova per kg di farina), sale …. e via col matterello a stendere una sfoglia sottile e resistente, che veniva tagliata finemente e rapidamente, con una manualità agilissima.
Si poteva scegliere tra tagliolini (“taiaìn”) e tagliatelle (“piccagge” o “piccàie”, queste ultime da non confondersi con le asole di stoffa cucite ad un vertice degli strofinacci, per appenderli), realizzate tagliando la sfoglia con un coltello che aveva ciò che restava di mezzo manico di legno e la lama “früsta”, cioè consumata (e infatti non tagliava), ma l’incisione era così sicura e precisa che sembrava un bisturi.
La pasta ottenuta veniva dapprima adagiata sui ripiani disponibili intorno, infarinandola, basta poter fare spazio sulla spianatoia per poter lavorare il resto dell’impasto.
Finito di tagliare, si prendeva tutta la pasta fatta e si metteva a stendere sugli schienali delle sedie e solo successivamente trasportata su dei fili in dispensa, in modo che potesse asciugare e seccare lentamente, ma esposta al fresco e all’aria.
Veniva poi consumata nei vari pasti della settimana, cotta un po’ per volta, praticamente sempre col sugo, o al massimo con burro e salvia.
Ogni tanto c’era la variante dei ravioli, o degli agnolotti, soprattutto in occasione delle feste.
I ravioli godevano della preventiva preparazione del ripieno, che poteva essere di magro (cioè di verdura), o di carne.
Molto spesso se il ripieno era di carne si realizzavano direttamente gli agnolotti.
Il ripieno comprendeva carne trita, che però non era macinata subito; infatti, si usava della carne “nervosa” (cioè con nervetti e tegumenti, piuttosto resistente), cotta ad “uccelletto” (rosolata in un tegame con vino rosso, aromi come alloro e rosmarino, olio e cipolla, a volte anche carota e sedano), la quale veniva tritata solo dopo la cottura, unendo prezzemolo fresco (oppure no); al ripieno venivano poi aggiunti fegatini di coniglio e a volte di pollo (solo durone e cuore, ma non il fegato per non rendere il ripieno amaro) e, se c’erano a disposizione, si spolpavano le zampe di pollo e si aggiungeva il cervello, le guance e lingua di coniglio.
Il tutto tritato, con qualche foglia di bietola, borragine e/o spinaci, formaggio grattugiato e uova, diventava il ripieno.
La sfoglia veniva tagliata con un bicchiere non molto grande, creando dei cerchi che, piegati a metà, e riempiti con il ripieno, erano chiusi schiacciando i bordi con le dita.
La cottura degli agnolotti era preferibilmente in brodo, ma anche col sugo.
Nel ripieno dei ravioli, invece finivano bietole, borraggini, spinacio, erbette, aromi, uova (circa mezza dozzina) e formaggio.
La sfoglia veniva tagliata in strisce rettangolari; su metà della lunghezza ed in posizione centrata si posizionava il ripieno a mucchietti, ad intervalli regolari, si copriva con l’altra metà della striscia di pasta, premendo con le dita attorno ai mucchietti di ripieno, in modo da attaccare i due strati di sfoglia.
Quindi, si tagliavano i ravioli usando o il coltello o la rotella.
Anche i ravioli seguivano le stesse cotture e condimenti degli agnolotti.
La differenza tra la pasta fatta in casa con o senza ripieno era che quella senza ripieno durava per tutta la settimana, mentre quella con il ripieno solo 2 – 3 giorni, perché altrimenti il ripieno sarebbe fermentato …. Ma non c’erano problemi, perché finiva sempre tutto prima.

La “cima” era fatta 2 – 3 volte all’anno ed una di queste era sempre verso dicembre, un po’ prima di Natale.
Si doveva acquistare il pezzo di carne dal macellaio, sindacando attentamente più di ogni altra cosa come venisse effettuato il taglio a tasca, perché era importante che fosse a metà dello spessore della carne, molto esteso lasciando poco bordo, ma al contempo uniforme perché altrimenti sarebbe scoppiata nella cottura, vanificando tutto il lavoro fatto.
Il ripieno era simile a quello dei ravioli, unendo però fegatini di coniglio e aggiungendo piselli e uova non mischiate al ripieno; qualcuno aggiungeva salsiccia al posto dei fegatini di coniglio ed altri non usavano derivati di carne, ma solo verdure e uova.
L’importante era utilizzare ciò che si aveva a disposizione ed in base ai propri gusti.
La tasca, riempita il più possibile con il ripieno, veniva cucita con un’opera di alta sartoria con dello spago, usando un ago simile a quello per materassi (con la punta ricurva), ma di dimensioni e diametro più piccolo (diversamente utilizzato per rammendare le calze di lana, cioè “sarśìi i scapìn”), facendo attenzione che la cucitura risultasse molto regolare, stretta al punto giusto da non fare uscire il ripieno durante la cottura, ma anche che la cottura stessa non determinasse lo strappo della carne sotto la tensione apportata della cucitura.
A fine cottura, raffreddata, veniva tagliata non troppo spessa ed a volte accompagnata da un condimento di una salsa verde fatta con uova, capperi e aromi (quest’ultima una sorta di maionese abituale condimento contadino).

Il sugo, “u tuccu”, era il condimento comune e per eccellenza della pasta, ma anche per pollo e coniglio, stufato, intermezzo mattutino e pomeridiano.
La casseruola veniva “caricata” con i pomodori a pezzi, non raramente senza togliere la buccia superficiale (nella mentalità, sarebbe stato uno spreco), aggiunta cipolla, un paio di spicchi d’aglio, sale (che veniva aggiunto anche durante la cottura a seguito di uno dei tanti assaggi), acqua e via a fuoco medio lento per ore, eventualmente allungando con acqua, mescolando di tanto in tanto, assaggiando con “u cassìn” (il mestolo di legno).
Dopo ore di cottura, la consistenza era quasi da tagliare a fette, tanto che il mestolo era in grado di stare ritto, infisso verticalmente nel sugo.
Il risultato finale era una casseruola con dentro tre – quattro dita di “tuccu”.
Spesso dentro veniva annegato un pezzo di “carne da bùie” (carne da bollire, pezzi solitamente da poco prezzo e molto filacciosi), il quale veniva cotto, ricotto, ricotto ancora e spuntava come sorpresa alla fine, quando il sugo stava finendo e la consistenza della carne era ormai ridotta a qualcosa di legnoso.
Un sugo che doveva durare per giorni (si faceva circa due volte alla settimana e si mangiava tutti i giorni), che era a disposizione in ogni momento per sopire il languorino che si presentasse a qualsiasi ora del giorno.
Eppure, era sufficiente avere una “dentaètta de pàn” (tozzetto di pane, letteralmente “morsicata di pane”), anche vecchio, ed il gioco era fatto: uno spuntino veloce, sempre pronto e in grado di soddisfare più o meno ogni esigenza ed ogni palato.
Nei casi eccezionali, il pezzo di carne da bollire veniva sostituito da salsiccia e allora la situazione cambiava drasticamente, perché il languorino diventava il pasto principale ed il sugo durava solo e fino al giorno dopo!
All’epoca, considerando l’olio un bene prezioso, i condimenti erano orientati su un maggiore utilizzo di burro e di lardo e proprio quest’ultimo rappresentava una ghiotta variante anche per il sugo.
Infatti, ogni tanto (2 – 4 volte all’anno) si comprava un pezzo di lardo, che comprendeva la pancetta e la cotica.
La parte più grassa, quella che era identificata come lardo vero e proprio andava via gradualmente, tenendo salato con sale grosso il pezzo che restava.
Con il grasso o separatamente veniva consumata una parte della pancetta, tralasciando lo strato grasso immediatamente attaccato alla cotica.
Quando rimaneva la cotica e quel poco di rimasuglio attaccato superiormente, il tutto diventava ingrediente da sugo, che per l’occasione cuoceva ancora di più, in modo da ammorbidire il più possibile la cotica stessa …… ed era tutta un’altra cosa …. mai più assaggiata.
La vita della cotica stracotta non era ancora finita, perché sarebbe stata risparmiata, per essere annegata nella cottura del minestrone: un ulteriore passaggio in un pentolone a fuoco lento per mezza giornata o anche più!

La trippa di pollo era un’operazione in cui serviva una pazienza da santa e veniva fatta solo se il pollo era ruspante sul serio (esemplari da 3 – 4 kg e oltre).
Personalmente l’ho sentita raccontare da alcune persone, ma l’ho vista fare e mangiata solo cucinata da mia nonna.
Poiché venivano puliti in casa, direttamente da chi cucinava, in tali casi si sfogava tutta la conoscenza di generazioni, a partire dalla spiumatura, la strinatura, il taglio nelle giunzioni delle articolazioni e non spaccando a caso l’ossatura tanto per fare dei pezzi, venivano pulite attentamente le zampe (che erano cotte prima bollite e poi rosolate), recuperate tutte le frattaglie interne ed infine l’intestino, da cui si sarebbe ricavata la trippa.
Si prendeva una piccola manciata di chicchi di riso (una pizzicata da 10 - 20 chicchi), si facevano sbollentare sufficientemente per perforarli con un ago da cucire con la cruna piccola; da 1 a tre chicchi venivano trapassati dall’ago e da un filo del 16, opportunamente annodato in modo che i chicchi stessi non si staccassero, ma anche che rimanessero distanziati tra loro di poco meno di 1 cm.
Dentro ad ogni tratto dell’intestino si faceva passare l’ago con il filo, facendo pressione sul budello al passaggio dei chicchi di riso, in modo che questi ultimi portassero via tutto lo sporco sedimentato all’interno.
Tale operazione si effettuava per un paio di volte e se necessario anche di più e ogni passata era intervallata da un lavaggio approfondito ed accurato con aceto.
Quando si riteneva che tutto fosse a posto, si procedeva ancora ad ulteriori lavaggi, sempre con aceto ed abbondante acqua corrente, e poi si provvedeva a tagliare per lungo e a pezzi il budello, strofinando da entrambi i lati con una lama di coltello non seghettata (in modo da rimuovere eventuali estraneità ancora presenti in aderenza all’interno delle pareti intestinali).
Ultimo risciacquo e via alla cottura, con abbondanti sapori, ma bilanciati, una prima cottura lunga in vino bianco ed infine con vino rosso con alloro, timo, rosmarino e cipolla.
Essendo presenti alla preparazione e pulizia, mai verrebbe idea di poter assaggiare qualcosa del genere, ma assaggiato una volta cotto, si cambia assolutamente atteggiamento, esaltando pazienza e bravura della cuoca!

La “maschetta” (guancia) e la coda sono pezzi considerati spesso di scarto, ed un tempo come oggi, erano tagli di basso costo (talvolta addirittura regalati dai macellai) e pertanto spesso acquistati per cambiare un po’ l’abitudinarietà alimentare, senza spendere troppo.
Solitamente bolliti a lungo e poi eventualmente girati nel sugo o rosolati, ma una volta giunti sul piatto costituivano una sorta di carne in scatola, più gustosa e abbondante, sicuramente più genuina e con tanto di gelatina di condimento.

La gallina ripiena era un regalo in tavola prima di Natale e di Pasqua.
Veniva sempre scelta una gallina da uova, ma ormai non più giovane, in carne, possibilmente grassa e grossa.
Il ripieno era simile a quello utilizzato per la “cima”, con l’aggiunta eventuale di salsiccia sgratata nell’impasto del ripieno.
Venivano tolte solo testa e zampe, aperta in corrispondenza dell’addome, ripulita attentamente, ma lasciando al suo interno l’eventuale pigna di uova se presente e ricucita con cura, similmente a quanto previsto per la “cima”.
La differenza era determinata da quanto fosse grassa, perché un esemplare magro sarebbe risultato poco morbido e con un gusto più insipido, indipendentemente dall’accuratezza del condimento.

La torta verde costituiva un cibo “pratico” per utilizzare velocemente ciò che era a disposizione, creando qualcosa di rapido, gustoso e nutriente.
La sfoglia, rigorosamente tirata a mano con “u cannèllu” (il matterello), era farcita con il ripieno, principalmente quasi esclusivamente su base di verdura (talvolta anche senza uova), la cui composizione dipendeva molto dalle disponibilità stagionali: veniva consumata fredda in periodo caldo e appena cotta in periodo freddo.

Nella cucina di tutti i giorni, si impastava spesso e un po’ in tutti i modi e tra gli impasti non sfuggivano i dolci, di cui la torta di mele era piuttosto comune in alcuni periodi dell’anno in cui il frutto non mancava.
Veniva fatta in diverse varianti, anche mista a pere e aveva in ogni caso il difetto che finiva velocemente!

I “frisciöi” (le frittelle) sono un’arte culinaria contadina che si tramanda fortunatamente, almeno in parte, nelle varie versioni delle sagre paesane, che attingono dalle tradizioni locali.
Frittelle, pan fritto, patate fritte, hanno in comune un elemento: la padella.
Può sembrare una sciocca ovvietà, ma non è così, perché in un certo senso, cosa assurda per le nostre concezioni alimentari e “igieniche” odierne, avevano una continuità di cottura!!
Questo perché la padella, generalmente in ferro, non veniva mai lavata a termine frittura, ma solo “asciugata” dall’olio in eccesso, il quale veniva inizialmente colato in un recipiente dove erano versati i residui di più fritture e dove i sedimenti scendevano sul fondo del contenitore stesso (spesso senza essere tolti subito), il quale era e restava aperto superiormente, a meno che non fosse coperto con un coperchio più grande o un piatto girato al contrario, in modo che potesse respirare e non ci andassero gli insetti.
I sedimenti venivano utilizzati per ingrassare utensili o condire avanzi per gli animali domestici, mentre l’olio decantato serviva per lumi e lanterne, ma anche come “pre-lubrificante” per pentole e padelle (!).
Infatti, la padella, dopo essere stata scolata dell’olio residuo, veniva “asciugata” con la carta assorbente da macellaio o con uno straccio, esclusivo per tale uso, di cui è meglio non sapere di più.
Pertanto, sulla padella restava un appena percettibile strato di unto, che sedimentava nel tempo creando uno strato nero, una specie di incrostazione untuosa (e catramosa) che impediva al ferro con cui era fatta di arrugginire (o almeno così non si vedeva la ruggine, continuando a credere che non ci fosse!).
Alla frittura successiva, si tastava con le dita per constatare se di percepisse unto; in caso affermativo si procedeva alla nuova frittura, in caso contrario eventualmente si ungeva leggermente la superficie, intingendo, o lo straccio, o un pezzo di carta, dentro al recipiente dell’olio usato in precedenza, al fine di strofinare il fondo e i bordi della padella (per lo straccio, la maggior parte delle volte non era necessario intingerlo ….. era già sufficiente da solo, da quanto unto era impregnato!).
Tornando alle frittelle, esse venivano realizzate, fatta salva la pastella che era praticamente sempre la stessa composizione di base, al limite variabile in densità, con gli ingredienti più diversi: mele, cavolfiori, broccoli, cipolla, stoccafisso e baccalà, frattaglie di pollo e coniglio, funghi, pastella e basta, ecc..
Se ci fermiamo a riflettere su quali condizioni alimentari rappresentassero la produzione delle fritture con i modi del tempo, possiamo tranquillamente manifestare una parte di meraviglia ad essere sopravvissuti …..

La torta di zucca era una torta dolce (a volte estremamente dolce), tipicamente autunnale, che veniva fatta tra novembre e dicembre.
Molto spesso era un ripiego goloso per evitare di sprecare le zucche raccolte che non si erano sufficientemente mantenute sane come scorta per l’inverno.
Quindi, si sfruttavano eliminando le “tacche” (parti) ammalorate, “scüŗandu” (ripulendo scavando) tutto intorno alla parte andata a male e tutto il resto veniva recuperato e lavorato per essere trasformato nell’impasto che avrebbe dato origine al ripieno della torta.
La zucca, tolta la buccia e ricavata la polpa a pezzi di dimensione variabile, veniva cotta in forma di bollitura in un “tiàn” (una pentola di grosso diametro e parecchio fonda).
Una volta cotta e raffreddata si strizzava a manciate e poi si mescolava con pinoli, olio, uvetta passa e zucchero (spesso davvero troppo!) e tale ripieno ottenuto veniva adagiato su una sfoglia sottile, tirata a mano con “u cannèllu” (il matterello), fatta con olio nell’impasto e rimboccata a coprire pressochè completamente l’intera estensione all’interno della “teglia”, enormemente unta e altro olio era aggiunto sopra al risvolto in copertura di pasta.
La cottura in forno diventava praticamente una “frittura”.
Tra preparazione e cottura si impiegavano un paio di giorni, venendo realizzata in “quantità industriali” e pertanto si ricorreva a diverse “fornate” successive.
Ne derivava una torta molto dolce, parecchio unta e sicuramente in grado di saziare.
Capitava che venisse fatta una sola volta all’anno, sia per motivi di tempo per la preparazione, che per la disponibilità degli ingredienti, ma anche perché per finirla tutta e non sprecarla occorreva un certo impegno …. e una seconda volta sarebbe stato davvero troppo.

I “figassìn” con l’aglio erano una specie di frittella, molto povera negli ingredienti …. e pericolosa per la convivenza in spazi chiusi!!
Si trattava di un impasto di farina e patate ridotte in poltiglia, con cui venivano fatte delle sfoglie, o grandi come il fondo della padella, o tagliate a forme casuali, come per i “crùstuli” (le “bugie”), che venivano fritte come normali frittelle, con la differenza che sopra venivano sparse manciate di aglio tritato, in quale concorreva ad insaporire durante la frittura, fissandosi anche alla pasta come condimento.
L’olio di cottura veniva talvolta conservato per inumidire e tenere morbidi i “figassìn” che non erano consumati subito, possibilmente caldi.
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ALTRI TEMPI ….

I miei genitori dedicavano tutta la propria giornata al lavoro, restando fuori di casa dal mattino presto fino alla sera, dopo che era sceso il buio.
La cena rappresentava il pasto giornaliero da trascorrere in famiglia con più tranquillità e il dopocena diventava per me il momento in cui assistevo e partecipavo alle "cose da grandi", portando un po' di disturbo .... con tanta voglia di crescere.

Nell’originaria impostazione per necessità, la preparazione alla caccia rappresentava una componente del tempo da trascorrere insieme in famiglia.
E così, nelle sere trascorse in casa, dopo una lunga giornata di duro lavoro, dopo avere consumato la cena, nella cucina mamma e nonna si occupavano delle faccende domestiche (stirare, rammendare, lavorare a maglia), mentre papà (anche io prima di essere mandato a dormire) si dedicava all’arte di “caricare le cartucce”, ovvero una tradizione condivisa tra generazioni, basata come sempre sulle proprie esperienze reciproche, secondo cui si studiava quanto le cartucce “tagliassero” (funzionassero) durante le giornate di caccia; si studiavano così miscugli e dosaggi di polveri da sparo, rapporti con la quantità in peso di pallini di piombo, creando varianti diverse di cariche, da provare ed utilizzare secondo umidità del giorno, caratteristiche atmosferiche ed ambientali e addirittura per tipo di caccia o di selvaggina con cui utilizzarle.

Alcuni bossoli avevano la chiusura a stella, presagomata in testa agli stessi; in tale caso, qualcuno dei cacciatori, ometteva il cartoncino sommitale di chiusura, mentre altri, per vezzo, posizionavano un pallino “a vista” incassato nel centro della chiusura.
Nei casi in cui si preparasse la carica per battute di caccia “importanti” come per lepri e fagiani, i bossoli diventavano “corazzate”, cioè cartucce con una culatta metallica più alta, che venivano caricate con dosaggi un po’ più consistenti (di poco), e solitamente con pallini di misura più grande (del 4); la maggiore culatta infondeva maggiore potenza allo sparo.
Durante il caricamento delle cartucce, i dosaggi erano effettuati piuttosto attentamente con un bilancino di precisione (tipo quelli da farmacia), dedicando meccanicamente le prime pesate alla polvere da sparo ed infine dedicandosi ai pallini di piombo.
In tutta questa arte rituale, io avevo compiti precisi e di fondamentale responsabilità: aiutavo a cambiare i pesi sulla bilancia, rimescolavo con il mestolino dentro al recipiente in cui venivano versati i pallini di piombo (spesso rovesciandoli e spargendoli tutto intorno), inserivo le “burette” che papà pressava con un pistoncino dentro ai bossoli.
Un segno che stavo crescendo era quando mi venne concesso di fare il primo orlo.
Le cartucce erano di calibro 12 e le polveri da sparo erano variabili, soprattutto anche in funzione delle convinzioni personali: le più comuni Anigrina (che alcuni evitavano perché si diceva avesse un maggiore effetto corrosivo sull’interno delle canne dei fucili), Sipe, S4, MB, GP, Acapnia, Ballistite, Nike, Universal (alcune di queste venivano mischiate tra loro e l'ultima citata era da alcuni miscelata con aggiunta di polenta!).
Papà le aveva provate tutte, ma prediligeva Sipe e S4, che talvolta mischiava raggiungendo ottimi risultati che sorprendevano i compagni di caccia, i quali gli chiedevano alcuni esemplari da provare, per poi scambiare i propri dosaggi preferiti.
I fucili erano due, un Beretta “sovrapposto” (due canne affiancate in verticale – due colpi) e un Breda “automatico” (una sola canna – inizialmente cinque colpi, con possibilità di serbatoio per estensione a sette colpi, successivamente ridotto a tre colpi e poi a due, per seguire l’adattamento allo svolgimento delle normative; quest’ultimo era poco più di un ferro rispetto all’altra arma).
Le “battute di caccia” erano spesso organizzate a gruppetti di partecipanti, oppure si limitavano ad una breve divagazione nel corso della giornata: mentre si stava lavorando nei campi, notando uno stormo di volatili che atterrava in un terreno nei dintorni (non esistevano recinzioni e praticamente nessuno si opponeva alla caccia di altri nei propri possedimenti), si recuperava velocemente a casa il fucile, una manciata di cartucce, e via verso il terreno dove stavano “razzolando” i volatili, i quali talvolta si trovavano tra due fuochi a causa dell’intervento del padrone del terreno.
L’attrezzatura, pressochè immancabile, e che tanto attirava la mia attenzione perché almeno a maneggiare quella avevo più libertà, era costituita da:
  • la “pigna”, una serie di cordicelle legate in sommità a formare una sorta di grappolo; sempre in sommità era presente un moschettone per poterla agganciare ad un passante della cinghia dei pantaloni; ogni cordicella terminava con un anello metallico, dentro al quale veniva fatta passare la cordicella stessa creando una sorta di cappio, al quale venivano appesi i volatili cacciati; alcuni cacciatori la ostentavano appesa alla cintola, in bella vista, al fine di vantare le proprie capacità venatorie e la propria abilità del giorno; in tempi più recenti ne venne vietato l’uso per ostentazione;
  • la “cartucciera”, una larga cintura in cuoio al cui esterno erano presenti una quarantina di tasche per contenere ognuna una cartuccia; si indossava armeggiando con una semplice fibbia in metallo e nei vari alloggiamenti per le cartucce, queste ultime venivano organizzate secondo un principio logico di possibile scelta veloce; infatti, ad una delle estremità erano messe le “corazzate”, per selvaggina più grande ed una o due cartucce a pallettoni, dedicate alla rara eventualità di incontrare e sparare ad un cinghiale; quest’ultimo tipo di bossoli erano aggiunti per completezza, nella sporadica eventualità che potessero servire, ma nella maggior parte dei casi risultavano un peso “inutile” trasportato ogni volta e mai utilizzato nel corso di una vita; tutte le altre cartucce erano ordinate in base a caratteristiche, dosaggio di carica, più vecchie e più nuove, spesso alternate da un alloggiamento vuoto per riconoscerne rapidamente la posizione al tatto, senza dover guardare e perdere di vista la preda; il mio compito in questo caso, per tenermi impegnato e distratto da combinare altri guai, era di verificarle tutte, contandone il numero per ogni tipo, eventualmente integrarle se mancanti secondo necessità e il premio, una volta ogni tanto, di poterne invertire la sequenza dell’alloggiamento (in tale caso ero talmente occupato da un compito supremo che risultavo impegnato per tutta la sera);
  • la "ciùcciua", una o più richiami per imitare i canti di alcune razze di volatili; si trattava di un disco cilindrico metallico, simile ad un bottone, ma con i bordi incassati, un foro centrale ed all'interno una o più lamelle circolari; veniva posizionato in verticale tra le labbra e intermittendo e modulando sapientemente il soffio con la posizione della lingua ed eventualmente della mano aperta-chiusa a contatto esternamente alla bocca, si ricreava il canto-richiamo di alcune specie specifiche, attirandone gli individui in alternativa ai richiami con "gabbie" (l’unica cosa che riuscivo a riprodurre erano fischi terribilmente fastidiosi, per cui spariva velocemente in modo definitivo dalle mie grinfie, venendo occultato in completa sicurezza);
  • il “gippunèttu” (una giacca, spesso senza maniche, con ampie tasche, tra cui la caratteristica “cacciatora”, cioè un grosso tascone sulla schiena, passante da un lato all’altro del corpo, dentro al quale di posizionava pressochè di tutto, come il panino da spuntino, la selvaggina cacciata, una ulteriore giacca, ecc.).
E poi, per molti cacciatori, c’era il cane.
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ATTREZZI DI USO QUOTIDIANO

Un elemento spesso sottovalutato per importanza erano le scope.
La scopa era “a spassùia de brügu”, oltre a quella di saggina (destinata maggiormente ad usi nell’abitazione).
Tuttavia, il tipo caratteristico era il primo, la “spassùia de brügu”, principalmente realizzata con un manico di legno inserito in una fascina di rami di erica, legati stretti da un paio di giri di filo di ferro.
L’erica, arbusto boschivo locale, veniva raccolta in periodo di fioritura, messa a seccare appesa in luogo ventilato, ma non al sole.
Quando i rametti a mazzetti erano pronti, venivano utilizzati, fornendo una ampia flessibilità e resistenza all’utilizzo.
Queste scope non pativano il fatto di rimanere esposte all’acqua o subire la ripetuta sollecitazione bagnato-asciutto e se utilizzate piuttosto inclinate erano in grado di “spolverare” qualsiasi superficie uniformemente, mentre in posizione più ritta garantivano una spazzata più selettiva.
Facili da pulire, durature, resistenti, versatili, economiche, molto efficaci, si consumavano gradualmente con l’accorciamento delle “barbe” (rametti), fino ad essere sostituite quando ci si accorgeva di spazzare con un legno rigido.
Presteranno il proprio uso nel tempo per le pulizie stradali effettuare dai netturbini fino ad una ventina di anni fa, prima dell’avvento di tutto il materiale sintetico odierno e dei mezzi rumorosi che soffiano la spazzatura nel terreno del vicino.

La ginestra era una risorsa locale che veniva preparata attentamente, per evitare di esserne sprovvisti al momento del bisogno.
Si tratta di una pianta cespugliosa estremamente comune nei boschi locali, per fortuna presente ancora oggi con buona estensione, caratterizzata dal tipico fiore giallo molto profumato.
La sua vegetazione è costituita da steli di varia lunghezza, che contengono all’interno una specie di fibra assimilabile ad una sorta di filo.
Nell’insieme ogni stelo è piuttosto resistente ad attorcigliamento, strappo e torsione.
Queste qualità ne determinavano l’importanza per l’uso nelle tecniche agricole, laddove servissero delle legature decise, ma che non dovessero danneggiare o lesionare il delicato fusto o estremità vegetativa delle piante coltivate.
Così si andava per i boschi, armati di sacchi di iuta e falce, recidendo rami di ginestra qua e là, quasi a potare i cespugli trovati, ma senza reciderli mai completamente, in modo da mantenere ben vegeta la pianta madre.
I rami portati a casa venivano selezionati, staccando tutti gli steli e riunendoli in mazzi, possibilmente di lunghezza simile (ma che tutti gli steli fossero circa della stessa lunghezza era più per praticità che una caratteristica importante o essenziale).
I mazzi così ottenuti venivano messi immersi nel trogolo o dentro a secchi, con dei pesi (grossi sassi), che li tenessero sotto il livello dell’acqua.
Restavano così per giorni (sostituendo regolarmente l’acqua), subendo una sorta di macerazione, al termine della quale venivano estratti ed appesi ad asciugare.
Il processo a cui erano stati sottoposti aveva lo scopo di farli praticamente “invecchiare” senza che si seccassero in modo da screpolarsi.
Quindi, erano pronti ad essere utilizzati per legare giovani piante ai tutori, pomodori e piselli alle canne delle “capanne” dei filari, legare i tralci della vite ai fili di ferro dei filari, ecc..
Si prendeva un mazzo, con una ginestra si legava in vita alla cintola, e poi da lì, uno per volta, si prendevano gli steli, si faceva un “giro morto” a scelta intorno al supporto o al tratto vegetativo da legare, si univano parallelamente le due estremità dello stelo e si attorcigliavano più volte piegandole su se stesse: rimaneva un legaccio stabile che non feriva la pianta anche se fosse cresciuta di diametro e per toglierlo sarebbe stato sufficiente un leggero, ma deciso strappo.
L’utilizzo di ogni stelo era logicamente monouso.
Gli steli verdi, invece, potevano essere occasionalmente utilizzati per effettuare dei rammendi di fortuna sui consumati abiti da lavoro, talvolta in alternativa alla “fibra” interna dei giunchi che costeggiavano i canali di scolo.
A differenza di come si potrebbe pensare, per recidere i rametti di ginestra durante la raccolta nei boschi, non si usavano le forbici da potare, ma la falce: questa distinzione era probabilmente dovuta al fatto che la forbice da potare veniva identificata come un utensile di preminente utilizzo maschile, mentre la falce era più abitualmente di utilizzo femminile e la raccolta delle ginestre era spesso effettuata dalle donne con bambini al seguito.

Le falci si affilavano battendole per bene con la “martelletta” (un martello con manico corto ed estremità battenti tendenti ad una punta quadra di sezione pari a circa un’unghia), appoggiando le lame di piatto sopra alle spirali metalliche laterali della “picchètta” (asta metallica a punta, lunga cm 40 – 50, che veniva conficcata verticalmente nel terreno; poco sotto la sommità, ad una distanza di circa 4 – 5 dita, erano fissate lateralmente, delle spirali metalliche di piatto – in genere 4, che costituivano la base di appoggio per la lama da battere).
Durante le operazioni di taglio, si portava al seguito la “cuètta” (cote), una lingua di pietra molto dura che veniva strisciata periodicamente sulla parte interna della lama arcuata delle falci, per rinnovare il filo, aiutandosi a bagnare la superficie di sfregamento con la saliva (sputando sulla cote).

La stufa economica, in ghisa e smaltata bianca esteriormente, era una stufa a legna con un ripiano costituito da anelli concentrici rimuovibili ed alternabili, per adattarsi alla dimensione delle pentole che vi si appoggiano in cottura.
Tali anelli erano posizionati in sommità al focolare - camera di combustione.
Sul tubo costituente la canna fumaria era applicato un anello con steli metallici pieghevoli a formare una raggiera, che venivano utilizzati come stendino per i panni e strofinacci.
L’abilità della nonna ad accendere il fuoco era interessante da osservare, perché fatto con una naturalezza disarmante, senza sbagliare un colpo.
Nelle giornate più fredde utilizzava inizialmente un batuffolo di cotone imbevuto di pochissimo alcool, unito a qualche pagina di giornale o una manciata di pezzetti di platò, che venivano accesi poco prima di caricare la legna; con questo sistema si portava più velocemente in temperatura la canna fumaria e all’accessione vera e propria della legna i fumi salivano più velocemente, permettendo alla stufa di scaldarsi rapidamente ed andare in temperatura per essere utilizzata anche per la cottura.

Il lavandino era di marmo grigio, appoggiato su spalline in muratura di mattoni intonacati, caratterizzato da una ampia vasca rettangolare con a fianco una lastra quale piano di lavoro, in leggera pendenza per permettere lo scolo dell’acqua.
Sotto questi due elementi, le spalline di muratura su cui poggiavano, creavano degli spazi equiparabili a mobiletti aperti, dove erano posizionati degli scaffali (semplicemente una tavola di legno su due appoggi laterali), “chiusi” frontalmente da una tendina scorrevole su una bacchetta di ferro (in tempi più moderni le tendine vennero preziosamente sostituite da due sportelli in legno smaltato).
Il rubinetto aveva una sola manopola, perché c’era solo l’acqua fredda (per averla calda si mettevano “sul fuoco” dei pentoloni ricolmi d’acqua “del rubinetto” per portarla in temperatura).
Sopra al lavandino era posizionato uno scolapiatti, costituito da una lastra, anch’essa nello stesso marmo grigio, a sbalzo su due appoggi (dello stesso materiale) murati a parete di taglio, e con un profilo di ottone, rialzato di cm 10 – 15 dal piano di appoggio (la lastra stessa) sui lati esterni; questo era il ripiano dove venivano posizionate e tenute le stoviglie (ad eccezione del servizio per le grandi occasioni …. semplicemente una serie di stoviglie non sbeccate e meno consumate dall’uso abituale quotidiano) e tale mensolone è leggermente inclinato verso il lavandino, in modo che l’acqua delle stoviglie lavate vi possa scolarvi naturalmente.
Il lavandino è anche una forma surrogata della moderna lavatrice, perché dentro vi si lavano i panni, insaponati con detergenti “grezzi” (sapone Marsiglia o polvere contenente pietra pomice), sfregandoli con spazzole di saggina o direttamente sulla lastra dello stesso.
Per aiutarsi ad effettuare una maggiore mole di bucato, si usa una “cunca” (grossa bacinella in plastica con due maniglie laterali), oppure per quantità più piccole un “bassì” (un catino o una bacinella più piccola che può anche non avere le maniglie, è meno profonda e talvolta di forma circolare), che consentono di spostare i panni per andare a stenderli e poi per raccoglierli quando asciugati al sole.
La “cunca” funge anche da “vasca da bagno” (gli adulti possono starci solo in piedi) e viene riempita per l’uso con secchi, pentole e bacinelle di acqua scaldata sulla stufa o sui fornelli (in genere, per fare più velocemente, si riempie di acqua fredda e poi si aggiungono un paio di pentole di acqua che era stata portata a bollitura).

La “credenza” era un mobile, praticamente l’unico armadio della cucina, formato in basso da almeno due antine (ma spesso quattro), sopra un paio di cassettini e sopra ancora altre antine dotate spesso di zanzariera, per disporvi ingredienti e prodotti da conservare protetti dall’attacco degli insetti.
Al suo interno sono alloggiati il servizio di stoviglie per le grandi occasioni e l’utensileria da cucina che non trova uso quotidiano o ingombrerebbe i risicati spazi, se sparsa qua e là. Nonché gli strofinacci.
La parte superiore, se dotata di zanzariera, prende il nome di “muschèa” (moschiera), ovvero uno spazio dove riporre alimenti in modo protetto dagli insetti; poiché ci troviamo in cucina, luogo dove è facilmente presente vapore acque dovuto alle attività di cottura, la parte di “credenza con zanzariere” è principalmente destinata ad ospitare quella parte di alimenti da consumarsi abbastanza in tempi brevi (tipo in giornata o il giorno dopo), oppure alimenti che non subiscono più di tanto un ammaloramento per la presenza di forte umidità o variazione di temperatura.
La “muschèa” vera e propria, la troviamo invece nella “dispensa”, che è un locale decisamente più fresco, asciutto ed arieggiato, finalizzato alla conservazione di prodotti anche facilmente deperibili e per periodi più lunghi.
Si tratta di un piccolo ripostiglio ricavato in una posizione del fabbricato poco esposta al calore e mantenuto ad una temperatura naturale più bassa possibile, con un’apertura verso l’esterno, dotato di zanzariera e perennemente aperto, al cui interno sono posizionate intere pareti di scaffali e cordicelle, dove vengono sistemati ed appesi alimenti, ingredienti, conserve, cibarie di vario genere, creando un miscuglio di odori che richiamano appetitosi sapori (come non ricordare aromi, cacciagione, formaggi e salami!!).

Parlando di cucina, non si possono dimenticare alcuni oggetti tipici che hanno unito nel tempo utilità e fascino nei ricordi:
  • “u cannèllu”, il matterello in legno (possibilmente faggio), attrezzo indispensabile per la lavorazione e creazione della pasta fresca (fatta in casa regolarmente ogni settimana e messa a stendere/seccare su fili o bastoni in dispensa), nonché delle sfoglie per le torte di verdura;
  • “a caffettèa”, la caffettiera, che spesso non fa caffè, ma surrogati di orzo e che in alcune occasioni viene sostituita con la “napoletana” (quella che si gira sotto-sopra);
  • “u fiàscu”, la bottiglia del vino, in vetro, rigorosamente impagliato e con il tappo di sughero, che veniva riempito da me tramite una “cannètta” con una gomma che pescava direttamente da una damigiana; arrivato a riempire al collo del fiasco, per cambiare su un altro vuoto occorreva piegare e stringere forte la gomma su sé stessa, in modo da interrompere il flusso del vino e poi rilasciarla non appena posizionata nel fiasco nuovo da riempire ….. inesorabilmente, per l’errata scelta di tempo a “chiudere”, il vino traboccava dai colli troppo pieni, si creava un allagamento sul pavimento, che portava a qualche “lerfùn” (sberlone).

A questo proposito è necessario fare una precisazione sulla damigiana.
Similmente al “fiasco”, anche la damigiana era un contenitore in vetro, possibilmente scuro (verde scuro), di grandi dimensioni (capacità variabile dipendente dalla dimensione, ma usualmente da 28 a 54 litri), con rivestimento impagliato.
La forma, a pianta circolare, era costituita da due tronchi di cono uniti per la base maggiore e con la superfice di appoggio a terra determinata dalla base minore del tronco-cono più grande (la superficie laterale della parte in basso era meno inclinata di quella della parte in alto); superiormente aveva una imboccatura a stringere con un collo circolare, chiuso da tappo “di natta”, cioè di sughero, e talvolta con soprastante un barattolo metallico riciclato (una lattina di scatolame di alimenti) che fungeva da protezione al sughero ed all’imboccatura di vetro (era una soluzione anche anti topo, per impedire che venissero rosicchiati i tappi).
La damigiana veniva riempita di vino sino a circa quattro dita sotto il tappo e, tra il tappo e il livello del vino, veniva aggiunto uno strato di olio, il quale proteggeva da accidentali infiltrazioni d’aria dal tappo e conseguente ossidazione ed inacidimento del prodotto contenuto.
Quando si andava a svuotare la damigiana, per travasare il vino nei fiaschi, come precedentemente descritto, l’olio di protezione era “assorbito” utilizzando la carta che i macellai utilizzavano nell’impacchettamento della carne venduta al dettaglio in bottega.
Infatti, all’epoca, tale carta, di colore marroncino, era molto assorbente, poiché conteneva fibre tessili di riutilizzo dal macero di vecchi indumenti; un foglio (l’equivalente di un pacchetto acquistato) si utilizzava accartocciandolo a spirale in forma di un sommario cilindro di diametro più piccolo del collo della damigiana e si inseriva all’interno della superiorità del collo della stessa, andando ad assorbire e scremare fino alla completa eliminazione di tutto l’olio presente.
Poteva presentarsi l’inconveniente che la carta utilizzata avesse in precedenza assorbito grasso e sangue della carne impacchettata, ma non si andava troppo per il sottile in tali dettagli.
Quindi, eliminato l’olio di protezione sommitale, la damigiana veniva sistemata in posizione rialzata rispetto a quello di appoggio dei fiaschi da riempire, ad esempio su un bancone o su un gradone, in modo da poter effettuare il travaso del liquido contenuto, sfruttando il principio dei vasi comunicanti, dopo aver aspirato accortamente (in modo da non strozzarsi per l’improvviso flusso) dalla canna inserita all’interno, in modo da riempiere la gomma pescante.

  • “a mèsa”, la spianatoia (amica del matterello), un ripiano in legno di faggio di dimensioni piuttosto ragguardevoli su cui si impastava la farina, che spesso sostituiva il tavolo, in quanto lo liberava rapidamente e in modo pratico per i restanti usi quotidiani, rendendo comunque disponibile un piano orizzontale ausiliario nelle faccende alimentari;
  • “u scösâ”, il grembiule, il capo di abbigliamento che più risveglia e rinnova l’affetto di nonne e mamme: unto, infarinato, con le macchie di “tuccu” (sugo), rammendato, con una tasca simile ad un “cilindro magico”, poiché da lì veniva estratto di tutto all’occorrenza (dalla frutta secca, ad un tozzo di pane, caramelle, cioccolatini, insomma un ricovero di fortuna per “comprarsi” lo “stare bravo” per cinque minuti del sottoscritto diavolo di giornata), oggetto di bonari dispetti da parte mia che correvo a slegarlo e ripetizione, scappando dietro a minacce di indicibili e sorridenti castighi mai arrivati, indispensabile nelle faccende quotidiane e spesso indossato ininterrottamente dalla sveglia mattutina al riposo serale.
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VITA IN FAMIGLIA

Le abitudini ed alcune tradizioni famigliari di un periodo e di un luogo sono state spesso riconducibili ad una sorta di stampo riconoscibile e distinzione nei nuclei domestici.
Si trattava di comportamenti e convinzioni ripetute e tramandate, da genitori a figli, che ad un certo punto sono diventate discontinue per il salto epocale, legandosi indissolubilmente al tradizionalismo conservatore degli anziani ed all’apertura mentale all’ammodernamento da parte dei più giovani.
Difficile attribuire il cambiamento a fatti precisi.
Probabilmente le generazioni più mature provenivano dall’aver vissuto e conosciuto direttamente epoche tormentate (basta pensare a chi è passato attraverso le due Guerre Mondiali), mentre i più giovani si sono progressivamente trovati più inclini ai cambiamenti, alla modernità, perdendo spesso, magari inconsapevolmente sul momento, il legame che li univa col passato.
L’anziano si accontentava a sufficienza di ciò che aveva a disposizione e conquistato con grandi sacrifici, non trovando eccessiva spinta nella curiosità verso le novità; il giovane soffriva quasi la stanchezza del passato che lo aveva lambito in giovanissima età e veniva attratto da qualsiasi cosa che fosse innovativa.
In molte famiglie contadine succedeva tutto questo.
Anche nella mia, qualcosa si è smosso, e nell’infanzia ho assistito allo spegnimento del tradizionalismo conservativo per imboccare lentamente, ma inesorabilmente, la strada verso la modernità, con il passaggio dagli anni ’70 al decennio successivo del secolo scorso.
La vita famigliare, quella fatta di quotidianità tra le mura domestiche, è sempre stata caratterizzata dalle presenze femminili: nonna e mamma che gestivano la cura della casa e dei componenti della famiglia, con un impegno ed una presenza costanti, con l’attenzione ad ogni aspetto.
Proprio su queste due figure, voglio effettuare il confronto generazionale che illustra il cambiamento dei tempi e della mentalità tra passato e modernità, analizzando due aspetti solitamente troppo facilmente dati per scontati: l’alimentazione e gli acquisti.

Nel periodo a cui faccio riferimento, ormai circa mezzo secolo fa, l’alimentazione di una famiglia contadina era ancora molto legata a quello che si autoproduceva e, quando ciò non era sufficiente, si orientava l’attenzione ad integrare dall’esterno, ma principalmente da realtà simili.
La casa aveva un piccolo orto: dell’antico possedimento agricolo era rimasto un fazzolettino di terra insignificante come pertinenza, ma tuttavia sufficiente a garantire molto di quello che veniva abitualmente consumato sul piano alimentare.
Il piccolo orto possedeva alberi di agrumi, una specie di aiuola delle piante aromatiche, un piccolo filare di vigna con piante di uve di diverse qualità; poi gli ortaggi e legumi, sempre floridamente presenti in tutte le stagioni, con una varietà che poteva soddisfare un’ampia realizzazione di composizioni alimentari in cucina.
Poco, ma un po’ di tutto.
La tradizione famigliare, anche nell’alimentazione, era dettata dalla nonna, con la sua esperienza di chi è sopravvissuto a due guerre, abituata a non sprecare nulla e trasformare in piatti gustosi e sostanziosi ogni cosa avesse a disposizione nella pur solare semplicità.
LA NONNA governava e dettava la programmazione e la gestione dell’economia famigliare guidando un micromondo che mirava il più possibile all’autosostentamento, sfruttando al meglio ogni piccola cosa a disposizione.
Tutto passava dalle sue mani, nonostante le 24 ore giornaliere come per tutti gli altri componenti della famiglia, con ritmo e fare instancabile, come se fosse dotata di un certo numero indefinito di cloni, tanto da lasciare qualche mansione agli altri solo dopo i 70 anni di età.
Era gelosissima della “muschèa”, una credenza con le ante superiori retinate che fungeva da dispensa inattaccabile dagli insetti, in cui trovavano riparo e conservazione principalmente, oltre ai formaggi, i vari tipi di frutta raccolta e stoccata perché durasse il più a lungo possibile nella forma “fresca”.
Abilissima a valutarne il volume di raccolta, in modo da tenere “fresca” solo quella che sarebbe stata possibile da consumarsi in un tempo ragionevole, più lungo possibile, ma senza correre il rischio di sprecarla; tutta la restante veniva trasformata con immediatezza, con conserve e confetture in ogni forma: frutta seccata, marmellate, frutta sciroppata; tutte rigorosamente posizionate in ordine sugli scaffali secondo la data di confezionamento, accessibili in modo che fossero più comode quelle più datate e poi gradualmente le più recenti.
I frutti nella “muschèa” (erano controllati severamente 2 – 3 volte a settimana, mossi di posizione su loro stessi, in modo da allontanare ogni esemplare intaccato e fare in modo che la superficie di contatto della buccia in appoggio allo scaffale non fosse sempre la stessa (accorgimento che ne aumenta l’integrità nel tempo); i frutti allontanati, se segnati da inizi di muffe e marcescenze venivano certosinamente depurati della “tacca” (zona ammalorata) e, se ritenuti non compromessi (praticamente non erano mai ritenuti da buttare, a meno che non fossero totalmente marciti) erano consumati in forma cotta: come se la cottura li risanasse!
L’uva, invece, non era destinata a questo tipo di trattamento: era volutamente di varietà diverse, perché quella ritenuta di minore qualità veniva artigianalmente pigiata e trasformata in vino, mentre l’altra solitamente di varietà ad acino più grande e da tavola o più “pregiata”, veniva “spiluccata” di qualche “axinellu” (acino maturo) direttamente dalla pianta durante le operazioni di irrigazione degli ortaggi; poi veniva raccolta, mangiata in qualche ridotto “sc-cianchèttu” (grappolino) per assaggiarla, quindi successivamente conservata appesa per i raspi ad una cordicella tesa in cantina, messa in alto a protezione dall’attacco dei topi, per trasformarla in uva passa per torte (soprattutto quella di zucca), dolci in genere (una forma di panettone fatta in casa a Natale), preservandola anche fino alla primavera inoltrata.
Qualche litro di vino, solitamente quello meno buono, veniva prelevato dalle damigiane per indirizzarlo a diventare aceto, spostandolo in una piccola damigiana con all’interno la “muè” (madre dell’aceto – mycoderma aceti), tramandata di anno in anno e rinnovata (tenuta in vita) anche nei periodi di riposo con vino pulito e sciacquandola di tanto in tanto.
Curava le piante aromatiche non potevano mancare: non di molte varietà diverse, ma quelle essenziali, erano sempre presenti in dipendenza alle stagioni e abitualmente usate per insaporire i cibi: “öiu föiu” (alloro), “rośumaìn” (rosmarino), “sarvia” (salvia), “pèrsega” (maggiorana), “baxiàicò” (basilico), “prensèmu” (prezzemolo); non mancava mai la “cornabüggia” (origano) e il “tùmau” o “tumìn” (timo) che venivano raccolti in fioritura di stagione nelle zone boschive, appesi a seccare a qualche chiodo infisso sulle pareti della cantina, per imbarattolarne foglie ed infiorescenze ormai secche.
Un insaporitore aromatico che veniva autoprodotto erano i capperi, raccolti sulle sponde di qualche muro di fascia o del torrente Merula, messi sotto sale e aceto.
Un solco di cipolle e di aglio, piantati tra gli spazi di altre verdure coltivate, diventavano delle “reste”, cioè delle specie di corone intrecciate che si conservavano appese e pronte all’uso, staccandone una “testa” all’occorrenza.
La nonna considerava il frigorifero un appoggio quasi d’emergenza per burro, latte, carne e formaggio fresco, mentre il congelatore, relegato ad un cassettino interno all’elettrodomestico stesso (una vera a propria ghiacciaia separata da uno sportellino deforme che restava quasi sempre socchiuso), serviva ad avere i cubetti di ghiaccio da usare per rinfrescare le “bibite fai-da-te”: semplice acqua del rubinetto, colorata e aromatizzata con sciroppi dolciastri a base di menta, orzo (orzata) o cedro (cedrata).
Riteneva che le patate occupassero troppo spazio nell’orto, impoverendolo e togliendo troppo spazio al resto, pertanto, venivano acquistate in sacchi di iuta da contadini vicini, e costituivano il “riempimento” di varie preparazioni in cucina, per appunto ripieni, bollite, fritte, al forno, stufate, e nella versione tipica “in balla”, cioè bollite intere con la buccia.
Quelle novelle erano spesso cucinate intere e mangiate comprensive di buccia (anche se fritte o al forno), mentre altre volte di friggevano solo le bucce delle patate pelate.
Gli ortaggi variavano secondo le stagioni (fave, porri, piselli), senza fare però mancare bietole (da taglio e da costa), lattughe e scarola, sedano e carote.
I piselli in particolare, i “puxi”, erano difficili da fare arrivare a tavola!!
Infatti, tra i compiti che mi venivano affidati, per togliermi di torno e limitarmi nella rottura perenne di scatole e nell’organizzazione di disastri domestici (e non solo!), c’era quello di innaffiare l’orto, invitandomi a non fare straripare i vari “surchi” (solchi) e “ciappètte” (aiuole) con la minaccia di “due lerfùi” (due sberle), in quanto avrei dovuto contribuire in aiuto a togliere un lavoro agli altri componenti della famiglia, e non dedicarmi a rovinare ciò che avrebbero dovuto riparare al mio passaggio (ero una specie di “Attila in miniatura”, ma già ben addestrato!!).
Il bello di quello che per me diventava un gioco e una sfida era che, facendo attenzione ai particolari con cui mi veniva esposto l’avvertimento, la punizione sarebbe arrivata se fossi stato visto, cioè colto sul fatto, ma non se fossi abbastanza vispo da combinare il dispetto senza essere beccato al momento in cui lo attuavo.
I piselli costituivano proprio il mio obbiettivo a cui dedicare le maggiori attenzioni.
Cercando sapientemente di sfuggire al controllo della nonna attraverso la finestra del piano superiore dell’abitazione, quella della cucina, mi intrufolavo disinvoltamente tra le “cabanne” (filari su canne) dei piselli, accucciandomi in modo da non essere scopribile e cominciavo una rapida “cura” dei bacelli.
Alcuni venivano staccati dalla pianta, svuotati del contenuto che era immediatamente ingurgitato con spavalderia a metà tra golosità e ingordigia, quindi interrando il bacello aperto, in verticale al fondo del solco o tra le vicine carote.
Altri, per essere più veloce nella consumazione, venivano direttamente svuotati ancora attaccati alla pianta, senza grande preoccupazione.
Risultato finale: poco da raccogliere, dei grandi mal di pancia e qualche commutazione al momento di cena delle sberle promesse in giornata, quando manifestavo di non avere sufficiente fame per finire quello che avevo nel piatto.
La nonna insisteva sull’essenzialità delle uova, che  derivavano da un paio di galline, tenute in condivisione di pollaio con qualche vicino che aveva “più posto” (maggiore spazio) a disposizione; in alternativa preferiva comprarle a dozzine da conoscenti, perché nelle botteghe di alimentari, nonostante le rassicurazioni del venditore, “non si sapeva da dove provenissero” (era importante consumare le uova dei propri luoghi, una forma di campanilismo culinario contadino, con la considerazione concettuale che se non fossero del luogo, automaticamente dovevano essere vecchie!).
La carne veniva acquistata con varie finalità:
  • quella bovina era di uso con più rara frequenza (perché più costosa, ma giustificata da “ci piace meno”, per non fare brutta figura …) e si riconduceva spesso ad un “toccu da bùie” (pezzo da bollire), taglio risparmioso che poi veniva sezionato in cucina e destinato ai più vari usi di cottura inadatti, presentandosi stopposo e filaccioso ai limiti della legnosità; alcune cotture “arrosto” venivano attuate dopo che il pezzo era stato bollito per fare il brodo (!);
  • quella di maiale frequentava molto spesso le tavolate, soprattutto grazie al frequente consumo di salsiccia (spesso regalata dal macellaio) e al lardo, acquistato a tranci completo di pancetta e cotica;
  • coniglio e pollo (anche con la variante della gallina, distinzione che rappresenta una differenza enorme, oggi pressochè sconosciuta) erano abituali, legati al tradizionale allevamento da pollaio domestico e preferibilmente rivolgendosi ai contadini locali; venivano acquistati indifferentemente da pulire o già puliti e comunque completi di teste, interiora, e zampe per il pollame; tutto veniva utilizzato e cucinato, con varie preparazioni principalmente dettate dai gusti famigliari;
  • la cacciagione, variabile secondo le abitudini di caccia di papà, ma quasi sempre orientata al tiro al volo, e pertanto costituita da uccellagione di piccole dimensioni, rosolata in casseruola 2 – 3 volte la settimana (solitamente merli, tordi, fringuelli, qualche colombo, una o due volte all’anno la beccaccia);
  • il pesce era una stranezza: crostacei e molluschi assolutamente sconosciuti e in via del tutto eccezionale un “axertu” (sgombro) cucinato bollito, assolutamente privo di gusto appetitoso e con odore nell’aria che faceva passare la voglia di sedersi a tavola, nonché stoccafisso o baccalà da stufare o friggere in frittelle, le sparute 3 – 4 volte all’anno e le “anciùe” (acciughe); di queste ultime ne veniva acquistata una cassettina dai pescatori del luogo, ogni esemplare era pulito (privato di testa, coda, lisca e interiora) sotto un filo di acqua corrente del rubinetto, sistemato in piano all’interno di un contenitore di vetro di forma cilindrica, a strati sovrapposti coperti di sale grosso e sommersi da salamoia (a volte aromatizzata con foglie di alloro e rametti di rosmarino), pressando il tutto con pesanti pietre che permettevano che tutto il contenuto restasse omogeneamente coperto dal liquido;
  • le lumache, raccolte in una giornata di pioggia, con tanto di stivali e mantellina impermeabile, accudite per un paio di settimane dentro ad una gabbia da uccelli ed alimentate rigorosamente a foglie di lattuga o scarola (perché “spurgassero”, cioè si depurassero).

I funghi, in famiglia ricondotti ai soli “pinaioli” e sanguini (più impegnativi da trovare e quindi dimenticati a loro stessi) venivano anche “confezionati” per essere consumati fuori stagione, in versione sotto olio – sotto aceto, ma più abitualmente seccati.
questo ultimo sistema di conservazione, esteso anche con le dovute varianti a pomodori, melanzane, peperoni e fichi, prevedeva l’utilizzo degli esemplari più sani e giovani, opportunamente ripuliti di pelle sulla cappella, radicazione e terriccio sul gambo e lo strato spugnoso più esterno (sotto alla cappella e principalmente per gli esemplari meno giovani), tagliati a fette sottili adagiate su carta dei sacchetti del pane, esposti dentro cassettine al sole ed in luoghi asciutti per più giorni, rigirati ripetutamente e periodicamente, in modo da essiccarsi omogeneamente (si poteva anche sfruttare la posizione vicino al focolare domestico, ma senza spingere troppo la rapida asciugatura dell’umidità contenuta e residua ed evitare attentamente l’esposizione all’umidità della sera).

La raccolta di vegetali spontanei coinvolgeva anche una ricca serie di “erbette” commestibili che contribuivano ad insaporire i cibi, le preparazioni e le cotture.
Non soltanto i classici “aromi”, ma crescione selvatico, bellomo, piantaggine, dente di leone (o tarassaco), “lacette” e “acciüssi” (varianti di cicorie selvatiche).
Molte di queste varietà finivano nel “prebuggiùn”, il miscuglio che diventava il ripieno per ravioli o varie torte verdi.

Le castagne erano un frutto autunnale che veniva utilizzato fresco, essiccato, in forma di farina.
Ogni anno nel mese di ottobre, tutta la famiglia, almeno una o due domeniche, scampagnava nel pomeriggio verso Testico – Passo del Ginestro, saltando il canonico appuntamento da maschi dedicato alla caccia, per raccogliere le castagne e, magari, inciamparsi in qualche fungo porcino dimenticato dagli altri.
Nonostante la predicata e invocata attenzione, era troppo difficile evitare di sedersi malamente su qualche riccio, soprattutto al ritorno quando si risalivano i ripidi pendii percorsi in discesa durante l’andata, ormai con i sacchetti o cestini pieni di frutti e con il “dovere” di salvare lo spandimento di quanto raccolto.
L’utilizzo fresco delle castagne era sotto forma di “rustìe” (caldarroste), “balètti” (castagne bollite), mentre facendole essiccare o al sole o vicino a fonti di calore si determinava il distacco della buccia esterna e della pellicina interna ottenendo quelle che erano chiamate “peèi” o “veggiètte” (pelate o vecchiette. Le preferite della nonna, perché le ricordavano di quando era bambina), le quali potevano essere consumate durante il corso dell’anno, semplicemente facendole “rinvenire” (reidratandole) in acqua e cuocendole.

La farina, invece, era utilizzata per la realizzazione del “castagnaccio” (un dolce), ma anche per fare qualche volta il pane e la pasta, magari mischiando con la farina di frumento.

Il sale veniva acquistato esclusivamente nella forma di sale grosso, ignorando quello fine, procedendo con l'antica lavorazione di frantumazione in cucina, dove in sugo, minestrone e cottura dei cibi in generale, veniva utilizzato direttamente il sale grosso, mentre quello macinato finiva per salare i piatti in tavola.
Mi si affidava il compito di occuparmi di questa lavorazione, in quanto occorreva un certo sforzo ed essendo ancora bimbo, il tempo impiegato sarebbe stato più lungo e dedicandomi a questo, per un po’ sarei stato abbastanza controllabile ed innocuo dalle mie solite azioni di disturbo giornaliero, con comunque il rischio che ingurgitassi alcune quantità del sale che avrei dovuto tritare; ma per attutire questo rischio c’era sempre pronta qualche variante di “punizione” a frenarmi.
Per ottenere il sale fino, si partiva dal sale grosso messo sulla carta di un sacchetto del pane appoggiato sopra al tavolo della cucina, il quale aveva la lastra in marmo, e la triturazione “artigianale” veniva effettuata (stando inginocchiato su una sedia) utilizzando una bottiglia di vetro come matterello, con cui pressando ad ogni passaggio si otteneva la frantumazione graduale e sempre più fine dei cristalli originari.
Il prodotto finale ricavato con questa “divertente” operazione si raccoglieva dentro ad una “cuppètta”, una tazza da caffelatte, da cui veniva prelevato direttamente a “prese” (pizzichi), pronto per l’uso.

Star, successivamente Knorr e Liebig e poi Maggi: i dadi.
Solo i primi, Star, erano tollerati, poiché la presenza femminile della generazione di mezzo della famiglia ne raccoglieva i punti per arrivare a prendere un premio che diversamente le condizioni economiche avrebbero indotto ad evitare di possedere: la macchina fotografica.
Su ogni scatoletta, c’erano dei “bollini”, i “punti” rossi su sfondo giallo, i quali dovevano essere ritagliati dal cartone della confezione e raccolti incollandoli su apposite tessere; uno dei premi era una macchina fotografia Ferrania, piuttosto rudimentale e che utilizzava rullini da 120, ovvero 70 mm, permettendo di fare foto circa quadrate e sempre sfuocate, almeno sui bordi.
Ma era comunque un lusso e, quindi, si concorreva a sfogarsi in minestrine per utilizzare i dadi e accumulare in punti per raggiungere il tanto ambito premio.
Eppure, nonostante la tolleranza consumistica, non era questo il vero dado.
Il vero dado era una produzione casalinga, patrimonio dell’umanità della nonna, atto di sapienza distintiva in cucina, adattata ai propri gusti ed ai propri sapori preferiti, realizzato con una bollitura interminabile di una sorta di minestrone di verdure, salatissimo, cotto con tempi infiniti fino a quando non si “restringeva” (consumava tutto il liquido), restando una poltiglia molto densa e quasi visivamente gelatinosa (in realtà di gelatinoso aveva solo la sembianza, ma non la consistenza al tatto).
Tutto il contenuto rimasto all’interno della pentola veniva raccolto con un cucchiaio e composto in una formina da cubetti di ghiaccio, per essere poi conservato.
La conservazione poteva essere fatta in due modi e la differenza del perché ci fossero due modi contestuali, ma diversi, non l’ho mai capita:
o il primo consisteva nel mantenere i cubetti nella ghiacciaia del frigorifero, prendendone uno per volta, ogni volta che si dovesse utilizzarlo per un minestrone o per una cottura diversa di pollo o coniglio nel tegame;
o il secondo consisteva nel lasciare seccare in dispensa/cantina (in luogo asciutto, fresco e ventilato) per un giorno la formina, per poi rimuovere ogni cubetto, poggiarlo su una carta assorbente da macellaio, a sua volta su uno strofinaccio da cucina, e coprire letteralmente tutti i cubetti con del sale grosso; questo tipo di dado veniva utilizzato togliendo il sale residuo intorno, sciacquandolo rapidamente sotto il flusso di un filo d’acqua del rubinetto e gettato direttamente nella pentola.
La produzione veniva attuata sempre due volte all’anno, in primavera e in autunno, in via eccezionale ad inizio inverno e mai in estate, perché se fatto in quest’ultima stagione “non stava” (non si conservava).
Una curiosità mia era di grattarne, di nascosto, una parte di quello sotto sale, con un cucchiaino ….. uscendone ogni volta con la lingua a fette!
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RIFLESSIONI SUGLI ACQUISTI

Un insieme di tradizioni tramandate “di madre in figlia” (la nuora non sfuggiva a questo principio di “indottrinamento”), con sempre la vicinanza delle generazioni più anziane, in una conservazione di abitudini e intenti che avevano segnato intere epoche, con limitati adattamenti di modernizzazione, badando più alla sostanza e quasi ignorando la forma.
Una tradizionalità di usi e consuetudini che si rifletteva nel come considerare e attuare gesti quotidiani, come ad esempio andare a fare la spesa.
In questa particolare attività sorge la netta distinzione tra passato e presente di un’epoca di passaggio verso la modernità.
La nonna puntava tutto sull’autosufficienza, sulle proprie forze e la conseguenza era di autoprodursi magari un poco, ma di tutto un po’, ottimizzando il poco a disposizione, senza sprecare o avanzare niente, adattandosi alla meno peggio a qualsiasi situazione e senza mai trovarsi o sentirsi in carenza, difficoltà o impreparata a sfamare i propri cari.
Ricorrere ad acquisti esterni era quasi un lusso e comunque altrettanto quasi una sconfitta.
La nonna che entra in una bottega di alimentari comporta:
  • comprare il pane a peso e non a numero di panini, perché a numero sarebbero contati, mentre a peso avanza sicuramente qualcosa da fare seccare e poi grattugiare come prezioso ingrediente complementare per alcune preparazioni appetitose (le impanature erano all’ordine del giorno e considerate parte delle ghiottonerie in tavola …. se ci arrivavano!);
  • il latte deve essere a mezzi litri (perché si rischia meno di farlo scadere), rigorosamente fresco e intero, perché quello parzialmente scremato è “acqua sporca” (o “l’acqua della lavatura dei piatti”), mentre quello a lunga conservazione “chissà cosa ci mettono dentro”);
  • le merendine non esistono, non se ne comprende il significato ed il bisogno, così come i biscotti innovativi, le “leccaìe” (prodotti che creano golosità), le bibite e bevande, lo scatolame, la pasta (inconcepibile comprarla che sa di cartone quando te la puoi fare fresca ogni volta che vuoi); possono servire il caffè, il te (non in bustina perché “ti andresti a bere della carta spremuta”), lo zucchero; se si deve fare uno spuntino, per le grandi occasioni c’è un pezzetto di focaccia (non la pizza, perché di impiastri e potresti avere, poi, le mani sporche! …. Perché prima ….!!), altrimenti più pratici i grissini che non ungono (ma solo quelli freschi fatti dal panettiere (perché quelli confezionati sono “stalìi”, cioè stantii e “sanno di plastica”); il prosciutto “sono soldi mal spesi”, perché “sa di pesce” (!), mentre salame e mortadella vanno bene perché costano poco e quasi te li tirano dietro; i surgelati non hanno senso (per quale motivo si dovrebbe mangiare qualcosa di vecchio scongelato?) e non puoi nemmeno conservarlo perché hai solo la ghiacciaia e la confezione non ci entra, essendoci già le formine per i cubetti di ghiaccio;
  • tutto quello che è una novità, pubblicizzato, è per i “nesci” (quelli che trovano queste novità interessanti e sostitutive delle cose abituali) e si fa a modo di evitare di sfiorarlo con lo sguardo, quasi a commettere peccato in caso contrario, e si tira dritti, molto dritti!!
Poi riguardo all’abbigliamento:
  • i capi si portano fino allo sfinimento, vengono rammendati ripetutamente (e su questo bisogna dire con tutta onestà che i rammendi sono vere e proprie opere d’arte, perché si ricostituiscono anche parti di tessuto mancante e, a lavoro terminato, non te ne accorgi!);
  • le scarpe del bimbo di casa, crescendo il piede anche rapidamente, vengono adattate, anche quelle invernali, tagliando la punta della tomaia (impensabile potersi permettere economicamente più paia in uno – due anni);
  • si adattano indumenti grandi a taglie più piccole, non manca mai un bottone e nemmeno si allenta, le calze di lana per l’inverno vengono fatte artigianalmente e caserecce con i ferri nelle sere d’estate (spesso assomigliano a informi sacchetti tubolari, tanto spessi da rendere difficoltoso calzare le scarpe; e per questo motivo, quelle invernali si acquistavano più grandi di un numero!), viene miracolosamente smacchiata qualsiasi tipo di macchia dai tessuti (senza che restino aloni o abrasioni: nonostante gli insegnamenti ricevuti, impossibile da ripetere!), i panni stesi non scoloriscono (perché la nonna controlla l’esposizione solare e la proiezione delle ombre durante la giornata, movimentando opportunamente i panni stesi sui fili).
Se deve comprare qualcosa di abbigliamento:
  • le scarpe devono essere comode, ma pratiche e, soprattutto, avere lo stesso colore degli avanzi di lucido a casa;
  • i calzini vengono acquistati sempre in più paia, ma dello stesso colore (perché così durano di più, potendoli incrociare e utilizzare anche se uno si danneggia irreparabilmente dopo decine di rammendi);
  • i capi da indossare devono essere di tonalità poco sgargianti e soprattutto tendenti allo scuro (perché si sporcano meno, o meglio in teoria si notano meno le macchie);
  • un cambio per la festa e il resto per tutti i giorni.

LA MAMMA subisce già maggiormente le influenze del mercato, e per questa lascivia rischia anche di essere tenuta fuori dalla cucina, in attesa di rinsavirsi.
A differenza della nonna, la mamma si sofferma ad osservare gli scaffali, a leggere le etichette, a chiedere informazioni circa nuove preparazioni, i gusti dei nuovi prodotti a chi li ha già provati; effettua quasi sporadiche indagini di mercato e, di tanto in tanto, mette nel sacchetto della spesa qualcosa che sarà assaggiato per la prima volta, magari per offrire semplicemente un nuovo sapore, una forma di prodotto più accattivante, pur conscia del rischio di valutazione matriarcale a cui andrà incontro.
Attiva ogni accortezza in funzione del proprio bimbo, mirando a permettergli il più possibile di rinchiudersi nelle restrizioni a cui lei è stata assoggettata dalle ristrettezze economiche e di mentalità da quando era piccola.
In fondo i tempi sono cambiati, e continuano a cambiare!
Queste valutazioni sono un rischio, perché muovono contrapposizioni in famiglia, su usi e tradizioni consolidate, ma ancora di più su principi incontestabili generazionalmente rispetto alle convinzioni dei membri anziani, rappresentando di fatto dogmi inaffrontabili.
La visione della mamma rispetto al proprio bimbo è che, nei limiti del possibile, non deve mancargli niente; non è più sufficiente il concetto di presentabilità sugli aspetti di “pulito” e “nutrito”; diventano altrettanto importanti “ordinato nell’aspetto” e, almeno quando si può, “accontentato”.
Salta l’imposizione valutativa insormontabile del “chissà cosa dirà la gente che ti vede o che viene a saperlo”, formandosi una maggiore identità distintiva, bonaria, ma pur sempre più slegata verso una maggiore individualità.
Tutto sempre nel rispetto, ma in adattamento, ai “sani” principi generazionali.
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GLI ANIMALI DOMESTICI

Il cane, a differenza di quanto viene considerato oggi, costituiva una presenza contrastante per significato secondo i vari membri della famiglia.
Per il “capofamiglia” era uno strumento di accompagnamento nello svolgimento della caccia.
Per questo veniva addestrato al riporto, confidando nel suo fiuto e nella sua indole portata a dedicarsi a tale utilizzo.
La sua esistenza era relegata ad uno spazio al coperto, nel magazzino, legato stabilmente ad una catena, che si trascinava da quando era stato accolto cucciolo.
Un vecchio straccio, strappato, fungeva da cuccia, per ripararsi dal freddo e un fondo derivante da una scassetta di legno, rosicchiata dall’attrito della catena e dal tempo, era il giaciglio “all’asciutto”.
In tutta la sua vita veniva lavato forse una volta all’anno, direttamente esponendolo sotto il getto della manichetta in una giornata considerata sufficientemente temperata.
Doveva abbaiare il meno possibile, perché altrimenti avrebbe dato troppo fastidio e veniva slegato una volta ogni tanto (a meno che ….).
Per le donne della famiglia, il cane rappresentava una bocca in più da sfamare.
Era impensabile immaginare alimenti per cani, crocchette e quant’altro oggi siamo abituati a considerare per l’alimentazione di un amico a quattro zampe.
L’alimento era “la zuppa”, una brodaglia allungata con acqua del rubinetto che comprendeva pezzi di pane secco e gli avanzi di tutti i piatti di pranzo e cena, qualche osso: il tutto messo dentro ad un vecchio pentolino che veniva risciacquato ogni uno – due giorni, e rabboccando eventualmente su quanto avanzato dal giorno prima, “se ancora mangiabile”.
Questo ogni giorno ed è inutile dire che il cane, sentendo che arrivava “la pappa”, muoveva dalla cuccia verso il pentolino in avvicinamento, annusando e senza alcuno scodinzolio.
Lo scodinzolio arrivava per il bimbo di casa, perché con lui la storia era diversa: compagni di gioco ogni giorno e ad ogni occasione, un biscotto o un panino con qualche bella fetta di salame diviso a metà, slegato tutto il pomeriggio a rotolarsi insieme da qualche parte o inventare intrattenimenti che lo tenessero attivamente in compagnia.
Fuori dall’orario scolastico era una vita trascorsa insieme, spensierati e complici di ogni minuto passato all’aria aperta: il cane non era accettato in casa, tranne che di passaggio, e così ecco trovato il pretesto per stare più possibile fuori, trovando qualsiasi scusa e accettando qualsiasi impegno “per aiutare”, purchè stare insieme a sei zampe.
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AL RITORNO DI UNA GIORNATA DI CACCIA

Nelle famiglie e nelle case contadine, non era rara la presenza di un uccellino in gabbia, che “allietava” con il proprio canto le faccende quotidiane e, in alcuni rari casi, diventava una sorta di animale domestico e cui si dedicavano attenzioni particolari.
Avevo nove anni, reduce da un problema di salute che mi avrebbe accompagnato e limitato ancora per parecchi anni e ogni sabato e domenica pomeriggio, nel periodo da ottobre a gennaio, seguivo mio papà a caccia, sempre “caccia al volo” e prediligevo su ogni altro luogo il “passo dei Divizi”.
La mia preferenza per tale luogo era dovuta anche al fatto che, considerata la mia debolezza, dovevo camminare poco per raggiungerlo, evitando di affaticarmi troppo facilmente.
Si trattava del crinale del bosco appena passate le case – rudere della borgata omonima, pressochè disabitata ad eccezione di due signore molto anziane, una delle quali vi risiedeva stabilmente: la Signora Angiolina.
La Signora Angiolina vi abitava sola e aspettava che passassi per offrirmi ogni volta una caramella, un mezzo panino col sugo o un paio di gallette “Marie”, che si portava dietro fasciate in un pezzetto di carta dentro ad uno dei tasconi del suo grembiule.
La incuriosivo perché ero uno dei pochissimi bambini che vedeva passare per andare a caccia col papà e perché parlavo in dialetto ed avevo la “lingua lunga”.
Per gli anni della mia infanzia, la Signora Angiolina mi ha donato ogni anno un “zenebrìn” (ginepro) proveniente dai propri terreni, per fare l’albero di Natale.
Il “passo dei Divizi” era costituito da una serie di “cabànne” (postazioni dietro a cui si nascondevano i cacciatori in attesa che passassero i volatili a cui sparare; una forma di “costruzione” condivisa tra i frequentatori, ottenuta dalla presenza degli arbusti del luogo, modificati da ognuno che le utilizzasse, con aggiunta di rami secchi o casualmente tagliati).
Tali postazioni erano complessivamente una dozzina, allineate sul crinale collinare, con ampia vista verso mare (lato da cui “entravano” i volatili la sera) e maggiormente gradite quelle che avevano intorno la vegetazione spontanea più “pulita”, cioè meno spinosa e più agevolmente accessibile, poiché dopo aver sparato e colpito, la selvaggina cadeva al suolo e la sua ricerca e raccolta erano semplificate se da effettuare un un’area maggiormente agevole e con vegetazione più accessibile.
Le postazioni erano comunemente chiamate con una denominazione legata alla propria posizione o a cosa le caratterizzasse di circostante e venivano prese d’assalto in base al loro relativo pregio di passaggio di caccia, andandole ad occupare con anticipo di ore rispetto al periodo giornaliero di “passo”, purchè arrivare primi e prendere le migliori disponibili.
I nomi erano “dai casài” (subito dopo i ruderi della borgata), “u tecciu” (dietro ad un muro, unico rimasto, di un antico rudere), “i zenebrìn” (luogo dove erano presenti tutte piante di ginepro), “e uŗive” (poco dietro c’era un uliveto coltivato, che scendeva verso il fossato), “i murtìn” (luogo così chiamato perché intorno erano tutti cespugli di lentisco), “dai pìn” (luogo a ridosso di una “macchia” di giovani pini), “addossu ai pìn” (la postazione successiva), “a s-ciànö” (la posizione sopra ad uno spiazzo sterrato, una sorta di slargo), “in èrtu” (le postazioni volutamente scartabili, perché troppo in alto e sfavorite), ecc..

Un sabato pomeriggio di novembre, ormai quasi buio, di ritorno dalla giornata di caccia, dopo aver salutato la Signora Angiolina e passate le case dei Divizi, sotto una rete da olive distesa per la raccolta, notai la presenza di un uccellino rimasto intrappolato.
Mi avvicinai per prenderlo e mi accorsi che si trattava di un maschio giovane di lucherino, il quale aveva un’ala spezzata.
Convinsi mio papà a lasciarmelo prendere e portare a casa vivo, promettendo che avrei provato a prendermene cura, cercando di farlo guarire.
Con tanta pazienza, mio papà acconsentì, giusto per non dirmi no, ma sapendo che non sarebbe sopravvissuto.
Il giorno dopo, mi dedicai con assurdità a provare a steccargli l’ala, aiutato da mia mamma e mia nonna, facendogli una specie di intelaiatura con stuzzicadenti su un manico da ghiacciolo.
Posizionato dentro ad una gabbietta, ogni giorno cercavo di fare del mio meglio per “curarlo”, suscitando l’ilarità e la presa in giro di chi mi vedeva impegnato in un qualcosa che era giudicato inutile e privo di senso.
Passati alcuni giorni, notando che il lucherino tentava ripetutamente di sfarfallare l’ala, come a volerla provare, decisi di togliere il “telaietto”.
Davanti a casa avevo una pianta di arancio enorme, che era stata messa a dimora da mio nonno, quando mio papà aveva tre anni, portata in bicicletta da un vivaio di Pietra Ligure poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale.
Era cresciuta a dismisura e costituiva il mio rifugio preferito di gioco e per fare i compiti, arrampicato sui suoi grossi rami.
Portai il lucherino sull’albero e lo lascia libero; dopo alcuni brevi voletti da un ramo all’altro, cinguettando, andò via.
Sembrava tutto a posto ed ero molto contento, perché mi ero impegnato, ci avevo creduto e per me era bello così.
Intanto, avevo una coppia di canarini in gabbia, donatimi da mio zio Lorenzo: il maschio era stato scartato da tutti coloro a cui era stato offerto perché dotato di un ciuffo assurdo, che lo rendeva davvero buffo.
Dopo alcuni giorni, ogni mattina, andando a scuola, trovavo il lucherino sulla gabbia, che mi cinguettava appena spuntavo dalla scala verso il garage.
Provando ad avvicinarmi, si lasciava prendere, continuando a cinguettare.
La cosa andò avanti alcuni giorni, fino a quando provai a prenderlo ed a metterlo dentro a quella che era stata la sua “gabbietta di cura”, lasciando la porticina aperta: e qui la sorpresa!! Rimase dentro alla gabbietta ….
Quando ero a casa, gli aprivo la porticina, usciva, volava sull’arancio e stava lì per tutto il tempo che ci stavo anch’io, saltellando tra un ramo e l’altro, baccando sul retro delle foglie e a volte litigando con qualche pettirosso di passaggio.
Come decidevo di tornare in casa, mi seguiva e se ne andava nella sua gabbietta, fino al prossimo giorno.
Lo avevo chiamato Struzzo, perché mangiava i pinoli con un’ingordigia incredibile, volando a prenderlo direttamente dalla mia mano e a volte consumandolo direttamente sul palmo, senza allontanarsi o interrompere un attimo se non quando lo avesse finito.
E sarebbe stato in grado di mangiarne a ripetizione: un vero pozzo senza fondo!
Crescendo, capitava che dovessi fare i compiti, soprattutto quando si trattava di disegni tecnici, sul tavolo in sala e così era sufficiente che tenessi la finestra aperta, lui andava prima sull’arancio e poi entrava dalla finestra e cominciava a saltellare sul tavolo, bacchettando ovunque, fino a quando non saliva sulla mia spalla e cominciava a beccarmi i capelli; sapeva che così saremmo usciti entrambi ed avrei rimandato a finire i disegni dopo che fosse stato buio fuori.
Ogni volta che mi ammalavo, rimanendo costretto a letto per giorni, si metteva a cinguettare ininterrottamente, anche se gli veniva coperta la gabbietta con un telo, fino a quando qualcuno non si decideva a portarlo da me: gli bastava essere posizionato con la sua gabbietta su una sedia, sull’ingresso della mia cameretta ….. e si acquietava, tenendomi compagnia fino all’imbrunire.

Dopo oltre cinquant’anni davanti a casa, l’arancio si ammalò ed in brevissimo tempo (era il 1989), dovemmo sradicarlo con grande tristezza da parte di tutta la famiglia.
Struzzo improvvisamente, non uscì più dalla gabbietta, a meno che non lo prendessi e lo mettessi fuori, ma non volava più, pur mantenendosi arzillo e cinguettando ininterrottamente per attirare l’attenzione e magari ottenere l’ennesimo pinolo da ingurgitare.
E’ inquantificabile la quantità di pinoli che gli ho cercato e preparato (perché tra l’altro era un buongustaio e se gli si davano quelli comprati in sacchettini, dopo due beccate spalancava il becco per sgridare) e, quindi, uno dei miei passatempi era cercare pigne, aprirle per prendere i pinoli, spaccare i gusci e prepararli per essere divorati, magari assaggiandone qualcuno in sua compagnia!

Arrivò il periodo in cui ci frequentavamo con Ovidia.
Struzzo la salutava ogni volta (solo con lei faceva così), allargando e facendo vibrare le ali, cinguettando come un matto.
E come si accorgeva che arrivava in fondo alla strada davanti casa, scrutando di guardia dalla sua altalena, cominciava a cinguettare ininterrottamente avvisando ben prima del citofono.

Avevo otto anni quando ci siamo incontrati e mi ha lasciato che ne avevo ventitre.
Da tempo non riusciva più a svolazzare sulla sua adorata altalena, che gli abbassai ad un paio di cm dal fondo della gabbietta, modificandogli anche la vaschetta, in modo che anche da più in basso potesse vedere tutto attorno.
Abbiamo trascorso quasi quindici anni insieme, in cui ogni pomeriggio rappresentava il nostro momento da passare in compagnia.
Non ho mai compreso il perché di questa, per certi versi, incredibile “avventura”, per quale motivo non abbia scelto di essere naturalmente libero, ma è stata una grande esperienza trascorrere il tempo insieme e lui, un fedelissimo ed indimenticabile amico, che mi ha accompagnato durante l’infanzia e l’adolescenza, donandomi una grande fetta della felice spensieratezza di quel periodo.
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I RIFIUTI

La spazzatura, ovvero i rifiuti domestici, era ridotta al limite, perché quasi tutto era autoprodotto o preso da produttori locali e vicini, privo di inutili imballaggi e confezionamenti e, quindi, trasportato con semplici sacchetti che venivano riutilizzati infinite volte (anche perché la plastica con cui erano realizzati era resistente e non porcate di materiali usa e getta di dubbio significato ecologico).
Non c’erano le enormità di polistiroli, poliuretani, poliesteri, materiali pseudo-plastici vari, bottiglie e bottigliette per qualsiasi cosa, tetrapak, lattine di bibite.
Esistevano, con una certa diffusione, le scatolette metalliche (caffè, carne in scatola, tonno, legumi), le bottiglie del latte, che erano tutti contenitori che venivano possibilmente riciclati per contenere liquidi (nelle bottiglie si mettevano preparati per la cura degli orti e ne venivano tenute diverse e distinte per usi specifici ognuna, soprattutto per miscelazioni varie in uso all’epoca).
Le lattine, invece, trovavano ampio e diffuso impiego nella protezione superiore, quali cappelli, delle “carasse” (pali da vigna) dei filari nelle campagne.
Le bucce e gli scarti vegetali, e gli ossi della carnagione, venivano “compostati” in un mucchio casuale in un angolo del terreno e, ogni tanto, sparsi e fresati durante le lavorazioni di preparazione per qualche semina o piantagione.
Tutto quello che era di cartone o carta era riciclato per imballare, fasciare, spessorare, contenere, proteggere, accendere il fuoco o direttamente da bruciare come combustibile, piano di calpestio di fortuna su superfici terrose (all’epoca ancora prive di pavimentazione).
Un oggetto meccanico o elettrico, ormai non più utilizzabile, veniva smontato ai minimi termini, conservando, piedini, guarnizioni, viti, dadi, bulloni, fili elettrici, interruttori, ganci, fascette, pomelli, maniglie: il tutto veniva “sernùo” (scelto) e “catalogato” e conservato all’interno di scatolette, barattoli e lattine, sottratte anch’esse alla discarica come rifiuto.
I contenitori di vetro venivano gettati solo quando si fracassavano per il lungo uso o per qualche uso accidentale.
Si era un po’ dei “campa rementa” (raccogli spazzatura), ma vigeva ancora la “civiltà del risparmio” dove tutto si poteva provare e riuscire a riparare, trasformare e adattare a diverso uso, riciclare e mantenere in funzione, anziché abbandonarsi più agevolmente al consumismo ed alla mentalità dell’usa e getta.
Restava ben poco da smaltire perché non riutilizzabile, in barba agli attuali “scienziatici” raccoglitori a campane o programmazioni di raccolta mirate.
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LA ROSA DI SANTA RITA




Nella giornata dedicata a Santa Rita, una delle tradizioni andoresi più sentite è la “Benedizione delle rose”.

Questa è una storia famigliare che inizia nella seconda metà dell’Ottocento, a Bardino Vecchio, frazione di Tovo San Giacomo.
Anticamente, quando nasceva un bambino, per tradizione contadina la famiglia piantava un albero, il quale accompagnava il nuovo nato durante la crescita; solitamente si trattava di un albero da frutto, ma talvolta poteva essere qualcosa di diverso, come un filare di essenze legnose da taglio (ceduo) che, alla maggiore età del nascituro, costituiva una sorte di dote.
Subito dopo la metà dell’Ottocento, quando nacque Gina, il padre recuperò una pianta di rosa “selvatica” da un tratto sassoso in un luogo di caccia e portatolo a casa lo trapiantò in un terreno estremamente scaglioso, ai piedi della scala esterna che portava alla cucina dell’abitazione.
La pianta di rosa, nonostante lo scarso terreno a disposizione, riuscì a crescere, diventando un cespuglio che si arricchiva ogni anno di boccioli, che sbocciavano nella seconda metà di maggio, con fiori di un rosa intenso, molti petali e profumatissimi.
Il periodo di fioritura coincideva ogni anno per la ricorrenza di Santa Rita, a cui le donne della famiglia erano devote e fu così che quella rosa diventò famigliarmente “la rosa di Santa Rita”.
Gina ebbe figlia Tanìn, che diventò mamma di Rina e Rosa.
A pochi anni di età, mentre le due sorelline giocavano ai piedi della scala di casa e vicino alla rosa, l’arrivo di un temporale scatenò una serie di fulmini, uno dei quali si scaricò sul cespuglio di rose fiorito, incenerendolo quasi completamente.
Nonostante tutto la pianta riuscì a sopravvivere e, sebbene a fatica, rivegetò.
Dopo la Prima Guerra Mondiale, la famiglia di Tanìn (col marito Vico e le figlie) si trasferì ad Andora in località San Giovanni, in una vecchia casa colonica, e con l’abbandono di Bardino Vecchio arrivò al seguito anche la pianta di “rosa di Santa Rita”, che era sopravvissuta in tutti questi anni.
Fu messa a dimora vicina alla casa, questa volta in un terreno fertile, dove restò fino alla metà degli anni ’50 del Novecento, adattandosi allo spostamento con grande facilità.
Deceduti Tanìn e Vico, sposatesi le due figlie Rina e Rosa, la casa di San Giovanni fu venduta e Rina prese in affidamento la “rosa di Santa Rita” per preservarla come una cara testimonianza di famiglia, impiantandola al bordo del cortile della nuova residenza alla Marina.
La pianta venne messa a dimora in un terreno nuovamente scaglioso, ma ormai poteva abituarsi a quasi tutto.
Passano poco meno di vent’anni e l’espansionismo edilizio si fa sentire: il terreno limitrofo alla pianta di rosa è oggetto di edificazione ed il fazzoletto di terra su cui la stessa si trova subisce un rinterro importante che prevede di alzare la quota del terreno di oltre un metro.
In quel periodo ci sono alcuni eventi sfavorevoli che si sovrappongono, distogliendo l’attenzione dalla rosa, la quale viene inesorabilmente dimenticata, coperta da oltre un metro di terra, da tonnellate di terra, e su cui viene costruito il muretto in cemento armato della recinzione del nuovo complesso immobiliare.
Passano un paio d’anni ed alla metà di un mese di maggio, in mezzo ad una piccola siepe di violaciocche, sboccia improvvisamente una “rosa di Santa Rita”: l’antica pianta è sopravvissuta ed è lentamente riemersa alla luce, continuando a fiorire nel mese di maggio e per la ricorrenza di Santa Rita.
Da quel giorno sono passati altri 50 anni, ben mezzo secolo, e ogni mese di maggio la nostra “rosa di Santa Rita” ha continuato indomita e perseverante a deliziarci con i suoi profumati e colorati fiori, accompagnando la “sua” famiglia per oltre un secolo e mezzo.


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